Le misure restrittive anti Covid non violano la libertà personale

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L’emergenza sanitaria da Sars-Cov-2 ha imposto alla politica di assumere nell’immediato scelte finalizzate a ridurre la diffusione del contagio ed evitare il collasso del sistema sanitario.

Al riguardo sono state sollevate da più parti perplessità in relazione alla forma dei provvedimenti utilizzati ed alla compatibilità delle prescrizioni con i precetti Costituzionali.

In particolare hanno destato interesse alcune decisioni della Magistratura propiziate da denunce o ricorsi con cui si eccepiva la violazione dell’art. 13 Cost. nella misura in cui talune prescrizioni contenute nei DPCM adottati dal Governo sembravano imporre un “obbligo di permanenza domiciliare”.

Sotto questo aspetto, particolare eco mediatica ha assunto la decisione del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Emilia con cui sono stati prosciolti due imputati dal reato di falso commesso dal privato in atto pubblico di cui all’art. 483 c.p. realizzato mediante la mendace dichiarazione di aver abbandonato il domicilio per recarsi presso il vicino ospedale per esami clinici. Le indagini preliminari avevano consentito di accertare che, diversamente da quanto dichiarato all’autorità di pubblica sicurezza, gli imputati non avessero alcuna ragione sanitaria da soddisfare.

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Il G.I.P., tuttavia, invece di emettere il decreto penale di condanna richiesto dalla Procura della Repubblica, ha pronunciato sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. assumendo l’illegittimità del DPCM dell’8 marzo 2020 con cui sarebbe stato introdotto un “vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare” e, quindi, una “sanzione penale restrittiva della libertà personale” in violazione dell’art. 13 Cost. Ritenuto per questa ragione illegittimo e, quindi, inapplicabile – ai sensi dell’art. 5 L. 20 marzo 1865, n. 22489 – il DPCM dell’8 marzo 2020, il G.I.P. ha ritenuto priva di efficacia qualsivoglia obbligo di auto-dichiarare le ragioni degli spostamenti, con conseguente irrilevanza del falso contestato agli imputati, ritenuto “inutile” perché realizzato tramite un’autodichiarazione che non poteva essere pretesa, in quanto prevista da un atto normativo in contrasto con la Costituzione.

Contro questo orientamento si è, però, espressa la CEDU. Secondo i giudici di Strasburgo, le ragioni di salute pubblica legittimano limitazioni alla libertà di movimento.

Il lockdown, che molte autorità nazionali hanno imposto per contrastare la pandemia da COVID19, così come le misure restrittive agli spostamenti e il coprifuoco dalle 22 di sera fino alle 6 del mattino sono assolutamente lecite. Esse non costituiscono misure restrittive della libertà personale illegittime, così come devono ritenersi legittime le sanzioni previste per i trasgressori.

Queste le conclusioni della CEDU espresse nella sentenza del 20 maggio al termine del caso Terhes contro Romania ricorso n. 49993/20.

Oggetto della cognizione della Corte Europea tutta una serie di provvedimenti del Presidente rumeno che hanno sancito il lockdown dal 21/3/20 al 14/5/20 e hanno sconsigliato di uscire dalle proprie abitazioni nella fascia oraria compresa dalle 22 di sera fino alle 6 del mattino, fatti salvi casi del tutto eccezionali e stabiliti da appositi decreti e purché in possesso di apposita giustificazione scritta.
A queste misure hanno fatto seguito i divieti di spostamento durante il giorno, tranne che in presenza di giustificati motivi. Multe per i trasgressori delle misure restrittive imposte.

Un cittadino però, ritenendo di essere sottoposto a una sorta di detenzione amministrativa, lamenta di aver subito per ben 52 giorni una vera e propria privazione della libertà amministrativa, extragiudiziale, imposta per prevenire la trasmissione della pandemia.

Per questo si rivolge alla CEDU, lamentando una deroga all’art. 5, che sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza, elencando i casi tassativi previsti dalla legge in cui un cittadino può esserne privato. Ricorso che però la CEDU dichiara inammissibile, disponendone il rigetto.

La CEDU nella sentenza evidenza prima di tutto che il ricorrente lamenta di essere stato sottoposto a un limite ampio della propria libertà personale, che non coincide con la sola limitazione alla libertà di circolazione sancita dall’art. 2 del protocollo 4 della CEDU.

Nel ricorso lo stesso lamenta l’impossibilità di uscire dalla propria abitazione se non in presenza di giustificati motivi e solo se munito di apposita autocertificazione, anche se non affetto da Covid, non sintomatico e anche se non entrato in contatto con soggetti affetti dal virus.

In risposta alle lamentele avanzate dal ricorrente, la CEDU precisa e ribadisce che la libertà personale non è mai stata compressa totalmente, ma solo in determinati orari della giornata e che in ogni caso era possibile recarsi nei luoghi previsti dalla normativa. La casa, in ogni caso, non è una cella e grazie ai sistemi tecnologici di cui disponiamo come telefoni e computer è stato comunque possibile mantenere contatti con conoscenti, amici e familiari.

I provvedimenti di cui il ricorrente si lamenta nel ricorso non hanno previsto restrizioni e limitazioni totali alla libertà dei cittadini. Ragione per la quale la situazione di specie e il lockdown in generale non possono assolutamente essere assimilati a una detenzione provvisoria o agli arresti domiciliari. L’art. 5 della CEDU esula del tutto dal campo di applicazione del caso di specie. Il lockdown quindi non può essere definita come una misura che si pone in contrasto con la CEDU.

La Romania, evidenzia la CEDU, ha applicato piuttosto delle deroghe all’art. 15 della CEDU che si occupa della libertà di movimento. La norma, intitolata “Deroghe in stato d’urgenza” dispone che: “In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte Contraente può prendere misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.”

Ne consegue che se anche il ricorrente avesse lamentato la violazione di questa norma, avrebbe comunque avuto torto perché secondo la disposizione, in caso di pericolo pubblico, come quello sanitario verificatosi durante la pandemia da COVID19, la tutela della salute generale avrebbe comunque prevalso sul diritto alla libertà di movimento, visto che la norma stessa ne prevede espressamente la legittima compressione in caso di pericolo pubblico.

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