È reato disturbare le comunicazioni tra volante e sala operativa

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2019-02-27 Inaugurazione Sala Mondi Connessi - progetto STOP Polo Tuscolano Presenti Pref. Franco Gabrielli, Pref. V. RIZZI, Dir. Sup. A. GIULIANO, Dir. Sup. A. GIULIANO, Dir. Sup. F. LAMPARELLI, Dir. Sup. G. LINARES, illustazione Mercurio App, sistema TeT.Ra. bolla tecnologica con veridicità documenti sistemi AFIS e SARI Ph: Matteo LOSITO

La semplice predisposizione di un meccanismo di disturbo atto a impedire le comunicazioni fra terzi fa scattare il reato previsto dall’articolo 617 bis del Codice penale (Detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature e di altri mezzi atti a intercettare, impedire o interrompere comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche).

Lo stesso reato si configura, inoltre, nella sua forma aggravata quando si agisce in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni.

Il principio è enunciato dalla Corte di Cassazione sezione V, nella Sentenza Sent. n. sez. 957/24 UP, depositata il 12 luglio 2024 che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto contro la sentenza della Corte di appello di Trieste che aveva confermato la decisione del Tribunale di Pordenone che aveva condannato il ricorrente alla pena di un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto previsto dall’art. 617-bis, commi primo e secondo, cod. pen., per avere tenuto, fuori dai casi consentiti dalla legge, nell’autovettura da lui condotta – in un cassetto lato posto-guidatore – un disturbatore di frequenza c.d. jammer, in funzione, al fine di impedire le comunicazioni telefoniche e via radio tra altre persone (ovvero le comunicazioni di seguito in auto dallo stesso con l’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, disturbando le comunicazioni via radio della pattuglia della volante del commissariato di Portogruaro.

Il ricorrente aveva sostenuto che intendeva solo tutelare le proprie conversazioni in presenza o telefoniche con terzi. Ma nel caso concreto il ricorrente non era riuscito a dimostrare che questa fosse la reale finalità del jammer che era stato rinvenuto nell’abitacolo della sua auto. Anzi, l’apparecchio aveva di fatto impedito agli agenti della volante della Polizia che lo pedinava di comunicare con la centrale operativa.

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Secondo gli Ermellini, il delitto di installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni, previsto dall’art. 617-bis cod. pen., sanziona la condotta di chi predispone apparecchiature finalizzate a intercettare o impedire conversazioni telegrafiche o telefoniche altrui.

Secondo la giurisprudenza di legittimità esso si configura soltanto se l’installazione è finalizzata a intercettare o impedire comunicazioni tra persone diverse dall’agente. Pertanto, il delitto non ricorre nell’ipotesi in cui si utilizzi un jammer al fine di impedire l’intercettazione di comunicazioni, sia tra presenti che telefoniche, intrattenute dal soggetto che predispone l’apparecchio (Sez. 6, n. 39279 del 16/05/2018, Gulla, Rv. 273768 – 01).

Nel caso in esame, dalle annotazioni di polizia giudiziaria acquisite agli atti, emergeva che il ricorrente aveva occultato, nell’autovettura su cui viaggiava, un jammer, con il quale erano state disturbate le comunicazioni radio tra la centrale operativa della Questura e la pattuglia che lo seguiva, allertata dalla segnalazione di un rappresentante di gioielli che aveva notato come l’autoveicolo dell’imputato lo seguisse in modo sospetto. E dal momento che tali comunicazioni radio risultavano tanto più disturbate quanto più la vettura in uso alla polizia giudiziaria si avvicinava al veicolo condotto dall’imputato, le sentenze di merito hanno logicamente concluso che il jammer fosse stato attivato proprio per ostacolare eventuali comunicazioni tra le Forze di polizia che lo avessero avvicinato e la centrale operativa della Questura.

Peraltro, la valutazione compiuta dalla Corte territoriale aveva valorizzato le particolari modalità della condotta, atteso che il reato risultava commesso durante l’espiazione di una condanna in regime di detenzione domiciliare da parte dell’imputato; nonché i non modesti precedenti penali del ricorrente.

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