Integrità psico-fisica del lavoratore

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Il datore di lavoro è sempre e comunque responsabile per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore. Il principio di diritto è stato enunciato dalla Corte di Cassazione con la Sentenza 27913/20 che ha confermato la decisione n. 389/2017 della Corte d’Appello di Ancona che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento e la reintegrazione di una lavoratrice, vittima di invalidità temporanea conseguente al mobbing, posto in essere nei suoi confronti, dai colleghi.

Il giudice di merito, aveva osservato che, nella fattispecie di fatto, aveva rilievo la circostanza che il rappresentante legale della società datrice, fosse stato messo al corrente dei reiterati episodi mobizzanti posti in essere nei confronti della dipendente, ma non abbia voluto indagare a fondo la questione, né attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica prospettatagli; che “gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dai colleghi nei confronti della lavoratrice appaiono idonei ad integrare la fattispecie di mobbing, nei termini sintetizzati dall’ormai costante giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. n. 24358/2017)… sussistendo, nel caso di specie, tanto il requisito oggettivo, quanto quello soggettivo. Il primo, costituito dalla pluralità di atti o fatti, caratterizzati da sistematicità, si è concretizzato con tutta evidenza, data la quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui alcuni dipendenti, mortificavano la lavoratrice.Nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c.. in quanto non ha mai reagito a tutela dell’integrità morale della lavoratrice vessata”.

I Giudici della Cassazione nella loro decisione hanno sottolineato, “alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015; 18626/2013; 17092/2012; 13956/2012), che la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori, (tra le molte, Cass.nn. 27964/2018; 16645/2003; 6377/2003). Ed i giudici di seconda istanza, attraverso un iter motivazionale scevro da vizi logico-giuridici e fondato su una condivisibile valutazione degli elementi delibatori, si sono del tutto attenuti alla consolidata giurisprudenza di legittimità nella materia”.

Al riguardo, secondo i Giudici di Piazza Cavour, “è altresì da osservare che la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizioni della Carta costituzionale abbiano segnato, anche nella materia giuslavoristica, un momento di rottura rispetto al sistema precedente “ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato” in considerazione del fatto che l’attività produttiva, anch’essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.) è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa, non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”.

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Da ciò consegue che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa; momenti, tutti, che “costituiscono il centro di gravità del sistema”, ponendosi come valori apicali dell’ordinamento, anche in considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i dispositivi atti a tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola l’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell’individuo, ed altresì l’art. 2087 c.c. che, imponendo la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro prevede un obbligo, da parte di quest’ultimo, che non si esaurisce “nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico”, ma attiene anche soprattutto alla predisposizione “di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio”.

Infine gli ermellini concludono che tale interpretazione estensiva della citata norma del codice civile si giustifica, alla stregua dell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., già da epoca risalente, Cass. nn. 7768/95; 8422/97), sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia per il principio di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio (artt. 1175 e 1375 c.c.), disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) – cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, “pur se nell’ambito della generica responsabilità extracontrattuale”, ex art. 2043 c.c., in tema di “neminem ledere”. Invero, la violazione del dovere del “neminem ledere” può consistere anche in un comportamento omissivo e l’obbligo giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui.
Per tali ragioni è da considerarsi responsabile il soggetto (nel nostro caso il datore di lavoro) che, pur consapevole del pericolo cui è esposto l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso).

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