La diffamazione tramite Whatsapp secondo la Cassazione

1340

“Le affermazioni lesive dell’onore e del decoro della persona offesa enunciate sullo status di Whatsapp posso integrare il reato di diffamazione qualora i contenuti ivi presenti siano visibili ai contatti presenti in rubrica”. E’ quanto ha affermato la Cassazione nella sentenza n. 33219/2021.

Nel caso di specie, la quinta sezione penale della S.C., si pronuncia in merito al ricorso presentato dal difensore dell’imputato contro la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Caltanissetta, la quale confermava la responsabilità dello stesso per il reato di diffamazione commesso pubblicando nel proprio stato di Whatsapp contenuti lesivi della reputazione della persona offesa e che, in riforma della decisione del Tribunale, concedeva la sospensione condizionale della pena.

Preliminarmente la Corte ha rilevato l’inammissibilità del primo motivo per assenza di specificità, così come risulta inammissibile per novità la questione relativa alla possibilità di escludere la visione dello stato di WhatsApp a tutti o ad alcuni dei contatti presenti, con conseguente limitazione della propagazione delle affermazioni diffamatorie. Pertanto, la pubblicazione di espressioni lesive e diffamatorie sul proprio stato whatsapp, integra, di fatto, il reato di diffamazione, potendo tali affermazioni essere lette da tutti i soggetti presenti nella rubrica dell’imputato e dotati dell’applicazione.

In virtù di quanto suesposto, la Corte di Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

advertise

La Corte ha, altresì, condannato il medesimo alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile liquidate in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge.
Ricordiamo che l’articolo 595 c.p. così dispone:

<<Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate>>.

La ratio legis della disposizione trova il proprio fondamento nella necessità di garantire la reputazione dell’individuo, ovvero l’onore inteso in senso soggettivo, quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto stesso.

I presupposti del reato sono i seguenti:

  • l’assenza dell’offeso, consistente nell’impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio;
  • l’offesa alla reputazione, intendendosi la possibilità che l’uso di parole diffamatorie possano ledere la reputazione dell’offeso
  • la presenza di almeno due persone in grado di percepire le parole diffamatorie.

Si tratta di reato di evento, che si consuma nel momento della percezione da parte del terzo delle parole diffamatorie.

La condotta è discriminata nell’ipotesi di esercizio del diritto di cronaca, critica e satira, quando attuata nei limiti di verità, continenza e pertinenza.

Advertisement