Illustrissimo Signor Capo della Polizia,
lo scenario che abbiamo modo di osservare attraverso la casistica che, quotidianamente, ci viene sottoposta dalle nostre strutture territoriali, restituisce l’impressione di un atteggiamento delle competenti articolazioni dipartimentali informato ad una aprioristica chiusura nei confronti dei dipendenti che invocano l’applicazione di istituti normativi essenzialmente riconducibili alla tutela della genitorialità. Più in generale si percepisce la volontà di affermare un orientamento avverso ad evolvere verso modelli organizzativi più empatici verso le esigenze famigliari dei dipendenti che, nel concreto, si traducono anche in una maggiore efficienza dell’istituzione.
Una tendenza che, invero, viene replicata anche in ambiti non direttamente riconducibili alle esigenze di natura famigliare e/o genitoriale (quale ad esempio la materia concorsuale), in ordine al quali ci riserviamo separati momenti di riflessione.
L’assegnazione temporanea ex art. 42 bis del D. L.vo 151/2001
Crediamo che, stante la platea degli interessati, che per quanto estesa non è sicuramente tale da inficiare la funzionalità dell’Amministrazione, una priorità nella trattazione la meriti l’argomento dell’assegnazione temporanea triennale di genitori di figli con età inferiore ai tre anni di età, prevista dall’art. 42 bis del D. L.vo 151 del 2001. Vale la pena di ricordare come il legislatore domestico, con il menzionato contenitore normativo, abbia realizzato una (invero solo parziale) armonizzazione della disciplina interna sulla tutela della genitorialità e sui diritti dell’infanzia derivante dall’adesione alle convenzioni internazionali e, soprattutto, dal recepimento delle direttive e dei regolamenti UE mirate ad incentivare, tra l’altro, una inversione nella curva della denatalità.
Questo essendo il quadro di riferimento, l’istituto in menzione, che con un adeguato adattamento organizzativo poteva essere valorizzato per andare incontro alle esigenze di operatori che prestano servizio lontano dai luoghi di origine, rendendo così fruibili maggiori opportunità di realizzazione personale e famigliare, ha invero visto sin da subito l’Amministrazione irrigidirsi ed arroccarsi su posizioni di indistinto e generalizzato diniego.
Gli interessati sono stati così costretti ad agire in giudizio per veder affermati i loro diritti. Istanze che le curie amministrative, dopo un primo momento di assestamento, hanno in linea di principio ritenuto meritevole di accoglimento.
La reazione dell’apparato dipartimentale, il quale sinora non ha patito alcuna responsabilità erariale e personale sotto il profilo dello sviluppo della propria carriera, è stato a dir poco sconcertante. Infatti, non appena si è andato consolidando l’anzidetto indirizzo giurisprudenziale favorevole ai ricorrenti, invece che prenderne atto ed attrezzarsi per gestire razionalmente la concessione di un diritto primario – quello cioè di cui, come le sentenze spiegano, è portatore il minore in età evolutiva a beneficiare del supporto educativo di ambedue i genitori – l’Amministrazione, approfittando del primo veicolo normativo utile, ha provato ad erigere una barriera normativa contro la quale si immaginava si sarebbero andate ad infrangere le pretese degli interessati.
In pratica, mentre nel testo base dell’art. 42 bis, valido ancora oggi per la generalità dei lavoratori, l’eventuale diniego viene “limitato a casi o esigenze eccezionali”, il D. L.vo 172/2019 (c.d. secondo correttivo), in uno degli innumerevoli commi e paragrafi di cui si compone l’art. 40, ha previsto che, per rigettare l’istanza – dei soli appartenenti al Comparto Sicurezza e Difesa – fossero sufficienti “motivate esigenze organiche o di servizio”.
La non esattamente candida manina che ha infilato questa subdola e penalizzante clausola in un tessuto legislativo che paradossalmente doveva, giusta la delega parlamentare, perfezionare in melius lo straordinario impatto riformista del riordino delle carriere, contava evidentemente di poter così officiare le esequie dell’art. 42 bis.
In effetti questo rimaneggiamento è stato, in una prima fase applicativa, interpretato dalle corti amministrative come un insuperabile ostacolo alla concessione del beneficio ai poliziotti ed agli altri operatori del Comparto, essendosi i TAR prima facie schierati su un indirizzo che riteneva sufficiente l’eccepita sussistenza di generiche esigenze di servizio da parte delle rispettive amministrazioni.
Contro la superficiale, stereotipata ed apodittica formula utilizzata per sostenere i dinieghi opposti agli interessati si è però man mano evoluto un orientamento che ha alla fine trovato apprezzamento nella superiore giurisdizione del Consiglio di Stato, al quale si stanno allineando anche le corti regionali.
Questo ulteriore revirement verso un favor per i dipendenti discende dalla constatazione dei collegi giudicanti che, nei casi sottoposti al loro vaglio, l’Amministrazione esprimeva un predeterminato parere negativo, sfornito di qualsivoglia concreta verifica istruttoria.
In altri termini è emerso, grazie anche al lavoro di ricerca svolto dal SIULP che ha assistito alcuni studi legali, come i pareri negativi fossero espressi a prescindere dalle effettive esigenze di servizio o di carenza organica, ed anzi, spesso in aperta e stridente contraddizione con i presupposti di fatto.
Solo per fare qualche esempio, le richieste di assegnazione temporanea presso la provincia di Napoli vengono ritualmente negate, ed al contempo vengono negate anche le analoghe istanze di dipendenti in servizio a Napoli che chiedono di essere assegnati temporaneamente in altre sedi. Ed ancora, è stata negata, praticamente nel medesimo periodo, l’aggregazione chiesta da un collega da Lecce a Cosenza, ed al contempo quella di un collega in servizio a Roma che chiedeva di andare a Lecce. In ambedue i casi gli interessati hanno ottenuto il riconoscimento del rivendicato diritto solo in esito alla pronuncia dei rispettivi TAR. Non era più semplice, e meno oneroso per tutti, incrociare le domande ed accoglierle?
Il caso che, però, ha destato in noi un profondo senso di amarezza, e sul quale riteniamo occorra indugiare, riguarda un collega in servizio al Reparto Mobile di Napoli che chiedeva di essere temporaneamente assegnato a L’Aquila.
Avuta la notifica del consueto diniego dell’Amministrazione, è insorto dapprima proponendo ricorso per la sospensione del provvedimento al TAR di Napoli. Stante il rigetto della sua azione in prime cure, ne ha invocato la revisione, ottenendo, finalmente, l’accoglimento delle sue ragioni davanti al Consiglio di Stato.
L’Amministrazione, a cui l’ordinanza del superiore organo di giustizia amministrativa è stata tempestivamente notificata, è rimasta del tutto inerte. A quel punto, sempre con il sostegno della Segreteria Nazionale SIULP, ha agito per l’ottemperanza del provvedimento. Il Consiglio di Stato, che già aveva condannato il Ministero dell’Interno al pagamento di 1500 euro oltre ad accessori, nell’accogliere la richiesta di ottemperanza ha inflitto all’Amministrazione soccombente ulteriori 1000 euro, oltre agli accessori, di spese. Intimando l’esecuzione dell’ordinanza entro 20 giorni, nominando un commissario ad acta per il caso di mancato adempimento. Lungi dal prestare acquiescenza, l’Amministrazione non solo ha ottemperato con un ritardo di circa 15 giorni, ma pure, nella causa di merito ancora pendente avanti al TAR di Napoli, ha mantenuto la sua posizione, arrivando addirittura ad invocare, nella memoria dell’avvocatura erariale, il pericolo per la difesa della Patria che sarebbe derivato dall’accoglimento dell’istanza del dipendente. Ci risparmiamo, per amore della stessa Patria, di esternare i salaci commenti che fermentano nelle nostre viscere.
Quale che sarà l’esito del giudizio del TAR di Napoli, che ove contrario all’interesse del nostro collega verrà sicuramente impugnato, con la ragionevole aspettativa di veder confermare al Consiglio di Stato l’orientamento già manifestato in sede cautelare, ci chiediamo se non sia il caso che l’Amministrazione, risparmiando risorse preziose, e facendole risparmiare anche ai colleghi, riveda la sua posizione che pare orientata a riproporre la strisciante imposizione di un modello culturale pre riformista. Quello cioè in cui ai poliziotti era vietato contrarre matrimonio prima del compimento del 28° anno di età, così evitando che le preoccupazioni per le vicissitudini famigliari potessero stimolare interessi diversi da quelli del servizio.
E ci chiediamo, allora, che senso abbia tenere aperto il tavolo di confronto paritetico chiamato ad elaborare strategie per ridurre le cause del disagio degli operatori della Polizia di Stato, nel momento in cui è l’Amministrazione stessa ad esserne fonte primaria.
La tutela della maternità
La necessità di indugiare sulla riflessione che precede risulta ancora più incombente con riferimento alla tutela delle lavoratrici madri, e segnatamente di quelle, vincitrici di concorso (interno o esterno che sia), che entrano in fase di gestazione in concomitanza con lo svolgimento dei rispettivi corsi di formazione.
Si tratta di una questione che, in apparenza, è stata affrontata e risolta con il correttivo di cui già sopra ci siamo occupati. Il D. L.vo 172/2019 ha infatti positivizzato la salvaguardia delle frequentatrici dimesse dai corsi per l’accesso ai ruoli della Polizia di Stato a causa della gravidanza in essere, prevedendo il loro diritto a partecipare al primo corso utile successivo.
Di talché si potrebbe prima facie credere che l’Amministrazione abbia così ricomposto le asimmetrie esistenti con la normativa in materia di tutela della maternità. In realtà un appena più approfondito esame dell’argomento rivela come tale intervento additivo abbia soddisfatto solamente in parte la necessità di allineare l’ordinamento della Polizia di Stato alla disciplina, nazionale ed eurounitaria, che presidia la tutela della lavoratrice durante la gestazione e nei periodi immediatamente successivi.
A una tale conclusione si perviene prendendo in esame un fondamentale arresto della Corte di Giustizia UE, (prima Sezione),la quale, nella causa C-595/12, era stata chiamata, su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal T.A.R. Lazio, a fornire l’interpretazione da dare agli articoli 2, paragrafo 2 e 15 della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, concernente “l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”.
La domanda pregiudiziale, come si legge nei preamboli della sentenza, è stata presentata, per l’appunto, nell’ambito di una controversia avente ad oggetto l’esclusione da un corso di formazione per l’assunzione della qualifica di vice commissario della Polizia Penitenziaria di una frequentatrice impossibilitata a concludere il corso perché in congedo obbligatorio per maternità.
Al fine di non appesantire inutilmente la presente, basti qui segnalare come la corposa sentenza della Corte europea, nel dare riscontro ai quesiti del giudice domestico, abbia affermato, per quel che più interessa, che “una misura come quella controversa nella causa principale, che prevede l’esclusione automatica dal corso di formazione e comporta l’impossibilità di presentarsi a sostenere l’esame organizzato in seguito senza tener conto, in particolare, né della fase del corso in cui si verifica l’assenza per congedo di maternità, né della formazione già acquisita, e che si limita a riconoscere alla donna che abbia fruito di detto congedo il diritto a partecipare a un corso di formazione organizzato in data successiva ma incerta, non appare conforme al principio di proporzionalità. (37) La violazione di tale principio è tanto più flagrante in quanto, come rilevato dal giudice del rinvio, la circostanza che l’inizio del successivo corso di formazione costituisca un evento incerto deriva dal fatto che le autorità competenti non sono obbligate a organizzare detto corso a scadenze predeterminate.(38) Al riguardo si deve aggiungere che, per garantire l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne cui mira la direttiva 2006/54, gli stati membri dispongono un certo margine discrezionale e che paiono ipotizzabili misure meno lesive del principio della parità di trattamento tra uomini e donne rispetto a quelle in discussione nel procedimento principale. Infatti, come lo stesso giudice del rinvio ha rilevato, le autorità nazionali potrebbero eventualmente prevedere di conciliare l’esigenza di formazione completa dei candidati con i diritti della lavoratrice, predisponendo, per la lavoratrice che rientra da un congedo di maternità, corsi paralleli di recupero equivalenti a quelli inizialmente dispensati, di modo che la lavoratrice possa essere ammessa, in tempo utile, all’esame che le consentirà di accedere il prima possibile a un livello superiore di carriera, cosicché l’evoluzione della sua carriera non risulti sfavorita rispetto a quella di un collega vincitore di sesso maschile vincitore dello stesso concorso e ammesso allo stesso corso di formazione iniziale. (39) Come risulta dall’insieme delle considerazioni che precedono, alle prime due questioni occorre rispondere dichiarando che l’art. 15 della direttiva 2006/54 dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale la quale, per motivi di interesse pubblico, esclude una donna in congedo di maternità da un corso di formazione professionale inerente al suo impiego ed obbligatorio per poter ottenere la nomina definitiva in ruolo e beneficiare di condizioni di impiego migliori, pur garantendole il diritto di partecipare ad un corso di formazione successivo, del quale tuttavia resta incerto il periodo di svolgimento”.
L’ampio stralcio qui citato consente di constatare come la recente innovazione della disciplina ordinamentale della Polizia di Stato non risulti assolutamente conforme ai rigorosi criteri enunciati dalla Corte sovranazionale. E questo quando, sempre nella medesima pronuncia, si spiega che appartenendo la Direttiva 2006/54 alla categoria c.d. self executing, essa “ha un effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri di talché “(50) il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme del diritto dell’Unione, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Pertanto gli articoli 14, paragrafo 1, lettera c) e 15 della direttiva 2006/54 possono essere invocati dal singolo nei confronti dello Stato membro di cui trattasi ed applicati dal giudice nazionale al fine di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale non conforme a detti articoli”.
In altre parole, atteso che la sentenza da cui ha preso spunto la nostra riflessione risale all’anno 2014, appare difficile poter comprendere la ragione per la quale l’intero apparato del Dipartimento della P.S. cui compete verificare la corrispondenza delle norme ordinamentali all’evoluzione delle fonti normative e della giurisprudenza delle corti dei diritti nazionali e sovranazionali, non si sia avveduto della qui lamentata gravissima discrasia.
La prova che la norma introdotta con il correttivo di cui al D. L.vo172/2019 offre garanzie ampiamente inferiori a quelle pretese dalla direttiva 2006/54, siccome interpretata dalla Corte di Giustizia UE, è offerta da quanto accaduto a due vincitrici del concorso per 81 Medici della Polizia di Stato, concluso il 19 dicembre 2019. Ambedue sono state infatti dimesse dal Corso perché in gravidanza, con ammissione al corso successivo.
Ma, come abbiamo appena finito di vedere, per dare una corretta applicazione alla sentenza della corte eurounitaria, l’Amministrazione avrebbe dovuto non solo attivare una specifica sessione di recupero, ma pure assicurare alle stesse di non subire alcun tipo di discriminazione, economica e giuridica, rispetto a tutti gli altri frequentatori pari corso.
Ed infatti, a seguito del ricorso al TAR Lazio proposto da una delle due interessate, l’Amministrazione è stata costretta ad organizzare una sessione di recupero per consentire alla stessa di completare le prove di addestramento al tiro che non aveva potuto sostenere per ovvie ragioni durante lo stato di gravidanza, e l’ha immediatamente dopo immessa in ruolo, nella posizione corrispondente al voto finale ottenuto.
L’altra, che aveva partorito il 16 dicembre, cioè tre giorni prima della fine del corso, comprensibilmente in difficoltà nella gestione del neonato, non ha potuto attivarsi per avviare il contenzioso in tempo utile ad ottenere una sospensiva. Ma ha comunque proposto ricorso al Tar avversando l’inquadramento disposto al termine del corso di recupero.
Dolendosi, tra l’altro, del fatto che era stata dimessa durante il periodo di astensione obbligatoria, ed è stata pertanto lasciata priva di alcun sostegno economico. E, per di più, ha dovuto restituire poco più di 1000 euro in quanto, secondo l’intimazione che le è stata notificata, negli ultimi 12 giorni del mese di dicembre, dopo cioè che era nato suo figlio, non aveva lavorato.
Ci indigna profondamente dover prendere atto di come sia proprio la nostra Amministrazione, istituzionalmente chiamata a farsi garante della legalità, a negare alle lavoratrici madri diritti basilari, arrivando persino ad adottare un provvedimento assimilabile in tutto e per tutto al licenziamento con riserva di riassunzione al momento, futuro ed incerto, di avvio del successivo corso, incurante di agire in spregio a tutele intangibili che, anche a causa delle gravi sanzioni previste, nessun altro datore di lavoro si permetterebbe di mettere in discussione.
Ci amareggia ancor più la constatazione che, nonostante la consapevolezza dell’illegittimità, se non addirittura dell’illiceità, delle determinazioni assunte, sancita dal TAR Lazio, sia stata sanata, pur sempre con un censurabile ritardo, la posizione della sola interessata che ha proposto ricorso. Per quale motivo non si è attivata una, mai come in questo caso, doverosa autotutela decisoria?
Un atteggiamento sfrontato che non è stato rimeditato nemmeno quando il Siulp ha insistentemente sollecitato almeno la correzione della posizione di ruolo attribuita alla non ricorrente, la quale, oltre al danno, ha subito pure la beffa di essere piazzata all’ultimo posto del corso da cui era stata dimessa. Mentre invece avrebbe dovuto, alla stregua della più volte richiamata sentenza comunitaria, essere inserita nella graduatoria del corso da cui era stata dimessa con il voto conseguito nel corso di recupero. Cosa che, infatti, è avvenuta per l’altra dimessa che ha proposto ricorso.
In definitiva il disarmante, e non di meno irritante, spaccato qui riassunto, nonché la palese irremovibilità da parte dei competenti uffici, che non appaiono intenzionati a modificare il loro approccio – così alimentando un massivo ricorso al contenzioso, con esiti che, come si è detto, gravano l’Amministrazione di un notevole impegno di risorse, umane e patrimoniali, finalizzate a negare l’attuazione di diritti di fondamentale rilevanza, assistiti anche da tutele di rango costituzionale, e puntualmente riconosciuti dalla giurisprudenza – rende necessario ed indifferibile un momento di confronto con la S.V. quale massimo livello del Dipartimento della P.S. auspicando che lo stesso avvenga con ogni consentita urgenza.
Nell’attesa di un cortese riscontro, voglia gradire cordiali saluti e sensi di rinnovata stima.