La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1269/2025 del 13 gennaio 2025, Sesta sezione penale, ha dichiarato che il consenso espresso dall’interessato non può legittimare l’acquisizione del contenuto dei dati di un apparecchio cellulare realizzato in assoluta autonomia da parte della polizia.
Per l’acquisizione del contenuto è necessario il provvedimento di autorizzazione preventiva e convalida successiva emesso dall’autorità giudiziaria essendo irrilevante il consenso del titolare quando si tratta di attività di polizia svolta nei confronti di un soggetto già bersaglio di elementi indiziari tali da giustificare l’assunzione della posizione di indagato.
In ogni caso, prosegue la sentenza, anche se il consenso fosse stato reso dalla persona interessata su sollecitazione della polizia giudiziaria e dopo essere stata avvisata della facoltà di assistenza legale, «resta imprescindibile, onde prevenire il rischio di abusi, che in situazioni del genere la polizia giudiziaria abbia il dovere di procedere al sequestro del telefono senza potere accedere al suo contenuto prima di una formale autorizzazione del pubblico ministero».
Nel caso oggetto della sentenza in esame, nel corso di un controllo effettuato dalle forze di polizia sull’auto di una persona sospettata di coinvolgimento in traffico di stupefacenti, gli agenti avevano esercitato l’accesso allo smartphone del presunto trafficante attraverso il consenso espresso, senza avviso della facoltà di assistenza legale oltre che della legittimità di un eventuale diniego.
L’operazione, poi, sul piano materiale era stata effettuata attraverso screenshot delle chat contenute sul telefono. Il Gip di fronte alle contestazioni della difesa aveva ritenuto inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona poi imputata perché non qualificabili come spontanee, ritenendo tuttavia utilizzabili i fotogrammi delle chat estratte dal telefono, anche in assenza della comunicazione sull’assistenza legale. Per la Corte d’appello, intervenuta successivamente alla condanna emessa dal Gip, i rilievi fotografici della polizia giudiziaria rappresentavano un’attività di acquisizione alternativa, da qualificare come legittima assunzione di una prova atipica.
La Cassazione non è però stata di questo avviso, ricordando innanzitutto come la messaggistica archiviata nei telefoni cellulare non può più essere, dopo la sentenza della Corte costituzionale n, 170 del 2023, come semplice documento acquisibile liberamente senza garanzie: serve invece un provvedimento dell’autorità giudiziaria per fondare la legittimità della compressione del principio di riservatezza della corrispondenza.
Secondo i giudici di piazza Cavour, gli screenshot, non erano legittimi né potevano considerarsi una prova atipica poiché, in un sistema ispirato al principio di legalità, non è permesso agli agenti di polizia aggirare espresse previsioni di legge per compiere atti atipici con l’obiettivo di raggiungere lo stesso risultato di quelli tipici.