Chi usufruisce della legge 104/1992 non è tenuto a prestare assistenza quotidiana

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Ultimo aggiornamento 26/03/2021

Chi usufruisce dei benefici di cui alla legge 104/1992 non è tenuto a prestare assistenza quotidiana h 24 al domicilio del disabile

“L’istituto non mira ad assicurare al portatore di handicap la compresenza fisica ininterrotta e prevalente del soggetto che Io assiste, bensì una dedizione funzionale al suo benessere psicofisico. In altre parole, fermo restando che l’adeguatezza dell’assistenza deve essere valutata giorno per giorno (anziché per la durata di quest’ultima complessivamente considerata), essa non va intesa in termini quantitativi (in particolare: di numero di ore di vicinanza fisica al portatore di handicap), bensì qualitativi (in particolare: di svolgimento di attività che il portatore di handicap potrebbe svolgere punto o con grande difficoltà da solo e che rendono migliore o addirittura possibile la sua esistenza)”.

Il principio è stato enunciato nella Sentenza n. 90/2020 del 5 novembre 2020 dal Tribunale di Napoli, nel procedimento penale a carico di un dipendente della Guardia di Finanza imputato di Truffa aggravata perché, avendo presentato un’istanza di fruizione di licenza straordinaria finalizzata ad assistere per 24 ore la madre portatrice di handicap in base alla legge 104/1992, attestava falsamente di aver prestato assistenza anche in un periodo nel corso del quale, si sarebbe, in realtà, disinteressato effettuando solo visite di durata inferiore ai 30 minuti.

Con tale comportamento, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbe indotto il proprio Comando a corrispondergli lo stipendio anche per un periodo, per il quale non avrebbe dovuto essere remunerato, con conseguente ingiusto profitto e danno per l’Amministrazione pubblica di appartenenza. Così agendo, sempre secondo la Pubblica accusa, egli avrebbe commesso il reato di Truffa aggravata dal possesso del grado (artt. 234, 47 n.2 c.p.m.p.).

I Giudici del Tribunale, premessa la contraddittorietà degli elementi raccolti alcuni dei quali depongono per un’assistenza quotidiana almeno sufficiente dell’imputato alla madre, altri per una dedizione discontinua e comunque inadeguata, osservano che in sede penale non si tratta di esprimere giudizi morali, bensì giuridici, in particolare circa la conformità del comportamento dell’imputato allo spirito dello strumento di cui gli viene contestato un abuso, ossia la licenza straordinaria ex l. 104/1992.

Secondo l’interpretazione preferibile di tale normativa, che tiene conto anche dell’evoluzione che essa ha subito via via, l’istituto non mira ad assicurare al portatore di handicap la compresenza fisica ininterrotta e prevalente del soggetto che lo assiste, bensì una dedizione funzionale al suo benessere psicofisico.

In altre parole, fermo restando che l’adeguatezza dell’assistenza deve essere valutata giorno per giorno di licenza (anziché per la durata di quest’ultima complessivamente considerata), essa non va intesa in termini quantitativi (in particolare: di numero di ore di vicinanza fisica al portatore di handicap), bensì qualitativi (in particolare: di svolgimento di attività che il portatore di handicap potrebbe svolgere punto o con grande difficoltà da solo e che rendono migliore o addirittura possibile la sua esistenza).

Detta lettura, secondo il Tribunale, emerge già dalla sua “”piena congruenza con quell’orientamento antropocentrico che caratterizza la nostra Costituzione e di cui la licenza in esame costituisce una delle tante forme di manifestazione, basti considerare che si può stare accanto a una persona per la maggior parte della giornata eppure disinteressarsene del tutto o addirittura maltrattarla (si pensi ai casi, tristemente noti, di badanti che vivono a stretto contatto con neonati o anziani e li trascurano o tiranneggiano), così come si può operare per la maggior parte della giornata a distanza di una persona eppure curarla nel modo migliore possibile, svolgendo in suo nome e/o per suo conto compiti che rendono possibile (es. : acquisto di medicinali, ritiro di ricette mediche) o quanto meno agevolano (es. : acquisto di nuovi vestiti, di prodotti per l’igiene) la sua esistenza. Là dove è chiaro che solo nel secondo caso ha senso riconoscere una vera e propria assistenza, ossia una dedizione funzionale al benessere psicofisico altrui””.

Peraltro, i Giudici hanno considerato anche ulteriori elementi che lasciano supporre che l’imputato, nel periodo in contestazione, assicurò una significativa assistenza alla madre. Tali elementi consistenti nell’acquisto di medicinali, rilascio, ritiro delle ricette mediche, presenza alle visite al domicilio dell’assistita, ritiro referti rilasciati per le analisi, hanno permesso di concludere che trattasi di attività di vario genere accomunate dal fatto di essere state compiute nell’interesse della madre dell’imputato, nel comune di residenza di quest’ultima e nel periodo in contestazione. Trattasi di elementi plurimi, significativi e certi che comprovano quanto meno una dedizione costante e utile dell’imputato alla cura della madre nel periodo in contestazione. L’incertezza che residua circa il carattere effettivamente quotidiano e sempre perfettamente adeguato di questa dedizione comporta solo che non può affermarsi l’insussistenza del fatto ascrittogli, mentre non può condurre alla prova della sua colpevolezza. Ciò per l’insuperabile principio, sottostante alla regola codicistica della prova al di là di ogni ragionevole dubbio (art. 533, comma 1 c.p.p.) e discendente dal principio fondamentale del giusto processo (art. 111, comma 1 Cost.), secondo cui è il p.m. che deve confermare pienamente l’ipotesi accusatoria, non l’imputato quella difensiva”.

Sulla base delle esposte considerazioni il Tribunale ha determinato l’assoluzione dell’Imputato perché il fatto non sussiste.

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