Il diritto al silenzio si estende anche alle domande sulle qualità personali dell’imputato

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Chi è sottoposto a indagini o è imputato in un processo penale deve essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 6 aprile 2023 con cui sono stati dichiarati parzialmente illegittimi gli articoli 64, terzo comma, del codice di procedura penale e l’articolo 495 del codice penale.

Il Tribunale di Firenze doveva decidere sulla responsabilità penale di un imputato per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le proprie qualità previsto dall’art. 495 del codice penale, che – accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale – aveva dichiarato alla Polizia di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era emerso che, in realtà, quella persona era stata già condannata due volte in via definitiva.

Il Giudice rimettente aveva osservato che il codice di procedura penale, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della propria facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali elencate all’art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: e cioè, tra l’altro, se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali.

Il Tribunale aveva, allora, chiesto alla Corte costituzionale se questa disciplina fosse compatibile con la dimensione costituzionale del cosiddetto diritto al silenzio, che è parte del diritto di difesa riconosciuto, tra l’altro, dall’art. 24 della Costituzione.

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