Il Parlamento non può impedire l’utilizzo di intercettazioni

107

Il Parlamento non può impedire l’utilizzo di intercettazioni diverse da quelle sottoposte al regime di autorizzazione preventiva

Con Sentenza 117/2024 pronunciata nell’udienza Pubblica del 21 maggio 2024, depositata il 2 luglio 2024 e pubblicata in G. U., la Corte Costituzionale, investita in merito ad un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha affermato il principio che il Senato della Repubblica non può negare l’autorizzazione, richiesta ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), a utilizzare, nei confronti di un senatore all’epoca dei fatti, le comunicazioni intercettate su utenze di soggetti terzi nell’ambito del procedimento penale nel quale il predetto parlamentare risultava imputato.

Il procedimento è stato promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma che ha eccepito il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo che venisse dichiarata la non spettanza del potere di quest’ultimo di negare, l’autorizzazione a utilizzare nei confronti del senatore Armando Siri le comunicazioni telefoniche intercettate su utenze di soggetti terzi, nell’ambito del procedimento penale instaurato nei confronti dello stesso parlamentare.

Il Senato aveva negato l’autorizzazione con l’argomentazione della «incerta e implausibile configurazione del requisito della necessità relativamente ad alcune specifiche intercettazioni, nonché della «mancanza del requisito della fortuità e occasionalità in relazione ad alcune specifiche telefonate….».

advertise

Ad avviso del giudice ricorrente, poiché l’art. 6 della legge n. 140 del 2003, per l’autorizzazione all’utilizzo nei confronti di un parlamentare degli atti di intercettazione già disposti nei confronti di altro soggetto, impone all’autorità giudiziaria di indicare gli elementi sui quali si fonda la richiesta di autorizzazione, «con ciò evocando, da un lato, le specifiche emergenze probatorie fino a quel momento disponibili e, dall’altro, la loro attitudine a fare sorgere la “necessità” di quanto si chiede di autorizzare», alla Camera di appartenenza del parlamentare spetterebbe solo il compito di verificare l’assenza di ogni intento persecutorio o strumentale della richiesta avanzata dall’A.G. e la sussistenza dell’affermata necessità dell’atto, motivata in termini di non implausibilità.

Il GIP ricorrente, pertanto, lamentava la menomazione delle proprie attribuzioni, derivante dalla pretesa del Senato della Repubblica di estendere il vaglio cui esso è chiamato in sede di autorizzazione ex post all’utilizzo di intercettazioni riguardanti i membri del Parlamento, prevista e disciplinata dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, al di là della verifica in ordine all’assenza di un intento persecutorio o strumentale da parte del Giudice richiedente, chiamato a motivare in termini non implausibili la necessità probatoria del materiale captativo di cui si richiedeva l’utilizzazione.

Il Giudice ricorrente lamentava la menomazione delle proprie attribuzioni da parte del Senato della Repubblica, che avrebbe preteso, per un verso, di valutare autonomamente il requisito della necessità probatoria di cui all’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 (con riguardo alle intercettazioni del 15 maggio 2018) e, per altro verso, di qualificare come indirette le restanti intercettazioni di cui il ricorrente ha richiesto l’autorizzazione all’utilizzo nel giudizio pendente dinnanzi a esso, in quanto aventi natura fortuita o occasionale.

La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso condividendo le rappresentazioni dell’Autorità Giudiziaria ricorrente.

Nell’interpretazione e nell’applicazione delle previsioni mediante le quali è stata data attuazione all’art. 68, terzo comma, Cost., vale a dire, in primo luogo, gli artt. 4 (per le intercettazioni “dirette” e “indirette”) e 6 (per le intercettazioni “occasionali”) della legge n. 140 del 2003, la Corte ha richiamato il principio cui si è costantemente attenuta per il quale la garanzia costituzionale «non mira a tutelare un diritto individuale, ma a proteggere la libertà della funzione che il soggetto esercita, in conformità alla natura stessa delle immunità parlamentari, volte primariamente alla protezione dell’autonomia e dell’indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad indebite invadenze di altri poteri, e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti a favore delle persone investite della funzione (sentenza n. 9 del 1970)» (sentenza n. 227 del 2023, che richiama le sentenze n. 157 del 2023, n. 38 del 2019, nonché l’ordinanza n. 129 del 2020; più di recente, sentenza n. 104 del 2024).

Con riguardo alle intercettazioni direttamente o indirettamente mirate all’ingresso delle autorità preposte alle indagini nella sfera comunicativa del parlamentare, l’autorizzazione preventiva è strumentale alla salvaguardia delle funzioni parlamentari, «volendosi impedire che l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività», senza che abbia rilievo la finalità di salvaguardia della riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto tale, posto che quest’ultimo diritto «trova riconoscimento e tutela, a livello costituzionale, nell’art. 15 Cost., secondo il quale la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge» (sentenza n. 390 del 2007).

Per le intercettazioni che occasionalmente coinvolgano un parlamentare, perché effettuate sull’utenza di soggetti terzi, «l’eventualità che l’esecuzione dell’atto sia espressione di un atteggiamento persecutorio – o, comunque, di un uso distorto del potere giurisdizionale nei confronti del membro del Parlamento, volto ad interferire indebitamente sul libero esercizio delle sue funzioni – resta esclusa, di regola, proprio dalla accidentalità dell’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto» (ancora, sentenza n. 390 del 2007).

L’inciso «di regola», secondo i giudici costituzionali, va inteso unicamente nel senso che la valutazione operata dal,’A.G. intorno alla casualità delle captazioni non è assoluta e insindacabile, ben potendo la Camera cui appartiene il parlamentare – come, del resto, avvenuto nel caso di specie e, di recente, nel conflitto deciso con la sentenza n. 157 del 2023 – contestarne l’erroneità, adducendo il carattere “mirato” delle stesse.

Ciò premesso, la Corte Costituzionale, nella richiamata sentenza n. 390 del 2007, a più riprese evocata dalla difesa del Senato della Repubblica a sostegno delle proprie tesi, ha ritenuto che un simile vaglio ad opera dell’assemblea parlamentare presenta, semmai, il rischio di spostare in sede parlamentare «un sindacato che trova la sua sede naturale nell’ambito dei rimedi interni al processo», con ciò evidentemente ritenendo che, in assenza della previsione legislativa che ha introdotto l’obbligo di autorizzazione successiva, per le intercettazioni captate fortuitamente dovesse valere il regime di utilizzabilità ordinariamente previsto per la generalità dei consociati.

In Conclusione, secondo i Giudici Costituzionali, non può in alcun modo ricavarsi dal precetto costituzionale di cui all’art. 68, terzo comma, Cost., la possibilità – e, tanto meno, la necessità – che le intercettazioni diverse da quelle sottoposte al regime di autorizzazione preventiva di cui all’art. 4 della legge n. 140 del 2003, per il solo fatto di coinvolgere un parlamentare, siano da ritenersi illegittimamente acquisite.

Secondo la Corte, «l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 non assegna al Parlamento un potere di riesame di dati processuali già valutati dall’autorità giudiziaria. Consente, tuttavia, alle Camere di verificare che la richiesta di autorizzazione sia coerente con l’impianto accusatorio e che non sia, dunque, pretestuosa. A tal fine, la Camera alla quale appartiene il parlamentare le cui conversazioni siano state captate deve accertare che il giudice abbia indicato gli elementi su cui la richiesta si fonda – ovvero, “da un lato, le specifiche emergenze probatorie fino a quel momento disponibili e, dall’altro, la loro attitudine a fare sorgere la ‘necessità’ di quanto si chiede di autorizzare” – e che la asserita necessità dell’atto sia “motivata in termini di non implausibilità” (sentenza n. 188 del 2010)» (sentenza n. 74 del 2013).

Invero, l’immunità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. per i voti dati opera unicamente in relazione a quei «comportamenti dei membri delle Camere» che trovano «nel diritto parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non esista alcun elemento del fatto che si sottragga alla capacità qualificatoria del regolamento», restando invece inoperante allorché vi sia un «elemento o frammento della concreta fattispecie che coinvolga beni o diritti che si sottraggano all’esaustiva capacità classificatoria del regolamento parlamentare», individuando quali esempi di tale evenienza quel che «accadrebbe, ad esempio, in presenza di episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari, corruzione, ecc.» (sentenza n. 379 del 1996).

Anche la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che integra il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, anche secondo la previgente formulazione dell’art. 318 cod. pen., la condotta del parlamentare che accetti la promessa o la dazione di utilità in relazione all’esercizio della sua funzione e, quindi, per il compimento di un atto del proprio ufficio (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 2 luglio-11 settembre 2018, n. 40347 e 6 giugno-24 luglio 2017, n. 36769).

Secondo la costante giurisprudenza Costituzionale, al fine di sceverare le intercettazioni cosiddette “indirette”, sottoposte all’autorizzazione preventiva di cui all’art. 4 della legge n. 140 del 2003, da quelle “occasionali”, rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 6 della medesima legge, è necessario «tenere conto, sebbene in via solamente esemplificativa, “dei rapporti intercorrenti tra parlamentare e terzo sottoposto a intercettazione, avuto riguardo al tipo di attività criminosa oggetto di indagine; del numero delle conversazioni intercorse tra il terzo e il parlamentare; dell’arco di tempo durante il quale tale attività di captazione è avvenuta, anche rispetto ad eventuali proroghe delle autorizzazioni e al momento in cui sono sorti indizi a carico del parlamentare”» (sentenza n. 227 del 2023, che richiama la sentenza n. 114 del 2010).

Alla luce di tali considerazioni, ritenuta sussistente la menomazione delle attribuzioni lamentata dal GIP ricorrente, una volta escluso che le intercettazioni contestate fossero inutilizzabili perché effettuate in violazione dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, la corte annulla la deliberazione adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 9 marzo 2022 e sollecita una nuova valutazione, da parte dello stesso Senato, in ordine alla «sussistenza dei presupposti ai quali l’utilizzazione delle intercettazioni effettuate in un diverso procedimento è condizionata, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della medesima legge», significando che l’ulteriore esercizio del potere di autorizzazione dovrà conformarsi al canone di leale collaborazione istituzionale, tra i poteri dello Stato.

Advertisement