Il principio dell’irrinunciabilità delle ferie non può avere eccezioni

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Nel corso dell’ultimo incontro tenutosi a palazzo Vidoni, nell’ambito delle trattative per il rinnovo del contratto collettivo di lavoro del comparto sicurezza, è emerso in maniera sufficientemente chiara il tentativo delle Amministrazioni di introdurre ulteriori equivoci e contraddizioni rispetto al principio dell’irrinunciabilità del congedo ordinario con il malcelato intento di attenuare la propria responsabilità in relazione alla mancata fruizione dello stesso, modificando i limiti entro i quali farlo fruire ovvero monetizzarlo.

Si tratta di una strategia che, complice l’innato senso del dovere dei Colleghi, un impianto normativo troppe volte distorto e adattato a seconda della convenienza dell’Istituzione, dagli impuniti margini di discrezionalità e compiacenti deviazioni dal principio di buona amministrazione, grazie anche alla mancanza di trasparenza ed equilibrio di una parte della dirigenza, potrebbe aumentare, manlevando i responsabili per la gestione passata, in maniera esponenziale il rischio di favorire, soprattutto a livello periferico, ulteriori differenze e difformità di trattamenti, quasi sempre correlati alla qualifica del dipendente, con conseguenti penalizzazioni nella gestione del congedo ordinario.

Alla luce di quanto premesso, pur di fronte ad una norma che non lascia spazio sul principio di irrinunciabilità e quindi del fatto che tale diritto non si può perdere, a questo punto non possiamo permettere che nella definizione normativa, in sede contrattuale, invece di uniformare i trattamenti si materializzi uno scenario di stridente collisione con presidi di rango costituzionale e del codice civile.
Per questa ragione, riteniamo opportuno ricordare che il diritto alle ferie annuali retribuite è previsto come diritto sociale fondamentale dal punto 8 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori nonché dalla previsione dell’art. 31 n. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea secondo cui: “Ogni lavoratore ha diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite”.

La definizione delle ferie quale diritto fondamentale è del resto confermata dalla previsione dell’art. 7 n. 2 della direttiva, che contiene il divieto di monetizzare le ferie, salvo il caso di interruzione del rapporto di lavoro, stabilendo perciò un regime di tutela non solo del singolo lavoratore che non può rinunciare al suo diritto, ma della collettività dei lavoratori stessi.

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La Costituzione Italiana, all’art. 36 c.3, sancisce che “il lavoratore ha diritto a un periodo di ferie annuali retribuite a cui non può rinunciare”. Si tratta, dunque, del diritto al riposo annuale, che, sia la dottrina che la giurisprudenza, di merito e di legittimità, hanno sempre riconosciuto corrispondente alla funzione reintegratrice delle energie psico-fisiche del lavoratore. Funzione questa che fa ricadere anche in capo al datore di lavoro l’obbligo affinché il lavoratore fruisca di tale periodo di riposo.

I medesimi valori sono alla base delle decisioni della Corte Costituzionale n. 617 del 1987 e n. 297 del 1990 che, in materia di incidenza della malattia sul periodo feriale, ribadiscono che il principio della irrinunciabilità delle ferie si traduce in quello della effettiva fruizione delle stesse e che è lo stesso datore di lavoro a essere interessato a che effettivamente avvenga per la ripresa e il rafforzamento delle energie lavorative. Di non minore rilievo è, la Sentenza n. 543 del 1990 della Corte Costituzionale, la quale afferma il principio che il diritto alle ferie annuali garantisce la soddisfazione di primarie esigenze del lavoratore, “dalla reintegrazione delle sue energie fisiche allo svolgimento di attività ricreative e culturali, che una società evoluta apprezza come meritevoli di considerazione”.

Il principio costituzionale dell’irrinunciabilità alle ferie ha trovato attuazione codicistica nell’art. 2109 C.C., il quale prevede che il periodo annuale di ferie retribuito costituisce un diritto insopprimibile e irrinunciabile del lavoratore, cui corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di organizzare e dirigere l’attività in modo da consentire l’esercizio di tale diritto. Proprio in relazione alla disposizione dell’art. 2109 C.C. la Corte Costituzionale ha precisato che “le ferie maturano in costanza di rapporto di lavoro e non alla fine di ciascun anno ininterrotto di servizio” (Sentenza n. 66 del 1963).

Il datore di lavoro, inoltre, è tenuto (rectius, è obbligato) a consentire la fruizione del periodo di ferie ai lavoratori, in quanto debitore dell’obbligo di sicurezza e di tutela della personalità e della salute psicofisica dei propri dipendenti, giusto il disposto di cui all’art. 2087 C.C. e come conseguenza di questo assunto, la Corte di Cassazione ha statuito che il lavoro prestato nel periodo destinato alla fruizione delle ferie costituisce “lavoro prestato con violazione di norme poste a tutela del lavoratore” rispetto al quale trova applicazione l’art. 2126, c. 2, C.C. il quale sancisce che “se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione (Cass. Civ. Sez. lavoro 21-08-2003 n. 12311)”.

L’omessa fruizione delle ferie costituisce, dunque, un inadempimento degli obblighi del datore di lavoro, la cui condotta viola le disposizioni poste a tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, con tutto ciò che ne consegue in termini risarcitori derivanti da responsabilità contrattuale (Cass. Civ. Sez. lav. 01 settembre 1997 n. 8267). Inoltre, “la mancata fruizione del diritto alle ferie annuali, ex art. 36, comma 3, Cost. oltre al risarcimento del danno per la lesione di un bene giuridico costituzionalmente garantito, fa sorgere in capo ai lavoratori il diritto a percepire l’indennità sostitutiva delle ferie non godute avente natura retributiva, (Cass. 09/11/2002, n. 15776)”.

Anche la Giurisprudenza Amministrativa ha dettato una serie di principi con riferimento al lavoro pubblico.

I Giudici Amministrativi, in particolare, hanno evidenziato alcuni principi, argomentando in primo luogo che il lavoratore interessato, secondo buona fede e correttezza, ha l’onere di reagire immediatamente, anche in via stragiudiziale, avverso la statuizione della P.A. intesa a negare o a differire l’esercizio di tale suo diritto, invece di restare silente e proporre, a distanza di tempo, un’azione orientata a ottenerne il pagamento sostitutivo (Consiglio di Stato Sez. V 3 aprile 2000 n. 1910); e in secondo luogo che, nel caso di mancata richiesta da parte del dipendente, le ferie vanno disposte d’ufficio (TAR Lazio Roma Sez. II bis Sentenza 02 luglio 2008 n. 6350 e Consiglio di Stato Sezione V 30 giugno 1998 n. 985), e che anzi, il superiore cui spetta l’autorizzazione alla concessione dei periodi di riposo ha il potere dovere di assegnare d’ufficio le ferie, eventualmente anche diffidando a usufruirne (Consiglio di Stato Sezione III 1 febbraio 2012 n. 500).

Premessa la collocazione e l’impostazione sistematica della materia, occorre subito chiarire che poiché le procedure del rapporto di impiego del personale appartenente alla Polizia di Stato sono stabilite dal D.Lgs. 195/95, che assoggetta il congedo ordinario alla contrattazione, si rende sin da ora necessario predisporre un organico intervento anche in sede contrattuale per superare le numerose difformità applicative della disciplina del congedo ordinario riscontrate, soprattutto a livello territoriale e in relazione alla qualifica posseduta dal dipendente (stranamente per il personale non direttivo o dirigenziale NON si applica l’obbligo della fruizione – anche facendo perdere le ferie non fruite – mentre per il restante personale si).

All’uopo si appalesa indifferibile assicurare la previsione di:

1) una compiuta disciplina delle programmazioni dei congedi, per evitare pianificazioni con minimo preavviso o di contro con esagerata anticipazione dei tempi rispetto alla fruizione;
2) tempi di pronto riscontro delle istanze con la fissazione di termini precisi per la loro evasione con un tempo congruo prima dell’inizio della fruizione del congedo;
3) una soglia massima di giorni di congedo accumulabile, con l’attivazione automatica di verifiche, amministrative e contabili, a carico dei dirigenti responsabili dell’omesso controllo per evitare trascinamenti di plurime annualità di ferie non fruite soprattutto in prossimità del collocamento a riposo;
4) una revisione della procedura di differimento, escludendo la possibilità di imporre la fruizione di quelle ferie che, secondo le disposizioni contrattuali, possono essere differite a richiesta dell’interessato.

Il fine è quello di superare tutte le situazioni di difformità presenti sul territorio poiché è inaccettabile che la normativa si applichi per alcuni e si interpreti per altri. Ancor più grave è poi il fatto che applicazioni e interpretazioni siano ispirate dalla considerazione del diverso ruolo di appartenenza del personale interessato.

Vogliamo essere chiari. Stiamo chiedendo di spiegarci perché alcune Questure dell’Emilia Romagna e determinati Compartimenti del Piemonte, Liguria e Lazio impongono la fruizione del Congedo ordinario, persino quello che contrattualmente può essere differito anche nell’anno successivo, mentre in altre realtà come, tanto per fare un esempio, Cuneo e Palermo, si afferma di “non poter obbligare la fruizione del congedo ordinario accumulato, con conseguente perdita dello stesso senza alcuna responsabilità del massimo vertice di quegli uffici”, il tutto in virtù del solo fatto che questo sia di qualifica elevata.
Dall’Amministrazione, che oggi fa spallucce rispetto alle nostre segnalazioni, esigiamo rispetto della legge, una trasparenza di comportamenti e un atteggiamento di assoluta imparzialità affinché non si favoriscano posizioni e condizioni di privilegio rispetto alla possibilità di monetizzare le ferie non godute per i dipendenti in prossimità del collocamento a riposo ovvero di un grave danno a loro carico perché ritengono che le ferie non godute sono perse.

Ciò perché le “improcrastinabili esigenze di servizio” che non abbiano potuto consentire il godimento delle ferie debbono dipendere da fattori oggettivi e non dalla posizione organizzativa rivestita dal dipendente, tenuto conto dello specifico divieto imposto dall’articolo 5, comma 8, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, che è stato confermato in tutti contratti collettivi nazionali e delle direttive del Dipartimento della Funzione Pubblica espresso, a ridosso dell’entrata in vigore della norma citata, attraverso il parere n. 40033 dell’8 ottobre 2012, il cui contenuto è stato condiviso anche dal Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento RGS-IGOP con nota n. 94806 del 9 novembre 2012 e ribadito, in ultimo, con il parere DFP-0076251-P- del 26 novembre 2020.

Invero, l’articolo 5, comma 8, del Decreto Legge n. 95 del 2012 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012,n. 135, prevede testualmente: “le ferie, i riposi e i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica ai sensi dell’articolo 1, comma 2,della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché le autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa, sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi.

La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare e amministrativa per il dirigente responsabile”.

Nell’ordinamento giuridico Italiano non può esservi, ove le ferie non vengano fruite per fatto imputabile al datore di lavoro, un sistema di reintegrazione del diritto leso, per equivalente, poiché, proprio il rango costituzionale del diritto ne esige la fruizione reale, sicché l’unico risarcimento legittimo è quello in forma specifica (fruizione ora per allora).

È questa la ragione per cui qualsiasi norma giuridica legislativa o contrattuale che prevedesse la monetizzazione del diritto alle ferie, al di fuori di ipotesi assolutamente eccezionali e indipendenti dalle volontà del datore e del lavoratore, si porrebbe su un piano di illegittimità costituzionale e per queste ragioni la giurisprudenza ha affermato, con riferimento alla contrattazione, la nullità per contrasto con l’articolo 36 Cost. della clausola, individuale o collettiva che preveda, in sostituzione delle ferie, il pagamento di una indennità sostitutiva (Cassazione n. 1169/1969).

Le ferie, dunque, non sono monetizzabili nel corso del rapporto di lavoro e l’eventuale diritto a una indennità sostitutiva non può che sorgere alla fine del rapporto e in casi espressamente previsti dalla legge (Cass. Sezioni Unite — Sentenza 7 ottobre 2008 n. 24712).

Il Dipartimento della P.S., con la circolare 333-G/div.1-sett.2/aagg del 14 gennaio 2013, ha escluso dall’ambito di applicazione del divieto ex articolo 5, comma 8, tutte quelle situazioni in cui il rapporto di lavoro si concluda in maniera anomala e non prevedibile (decesso, dispensa per inidoneità permanente e assoluta) o nelle quali la mancata fruizione delle ferie non dipenda dalla volontà del dipendente o dalla carente capacità di vigilanza dell’amministrazione (malattia, infortunio, congedo obbligatorio per maternità, aspettative a vario titolo previste dalle vigenti disposizioni). Resta inteso, ad avviso della Ministeriale, che la monetizzazione delle ferie, in questi residui casi potrà essere disposta solo in presenza delle limitate ipotesi normativamente e contrattualmente previste e nel rispetto delle previsioni in materia.

Con la circolare n. 333-G/Div. I A del 28 maggio 2019 la Direzione Centrale per le Risorse Umane, del Dipartimento della PS ha emanato direttive in ordine alla possibilità di riconoscere la monetizzazione del congedo ordinario, non fruito a causa di sopravvenuta malattia, da parte del personale cessato dal servizio a domanda, prendendo le mosse dalla sentenza del 20 luglio 2016 (causa C-341/2015) della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Tutti i contratti di settore, sino ad oggi emanati, nel disciplinare l’istituto del Congedo ordinario, si sono uniformati a tale indirizzo.

  • DPR 395/95 Articolo 14 (“Fermo restando il disposto del comma 7, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, qualora il congedo ordinario spettante a tale data non sia stato fruito per documentate esigenze di servizio, si procede al pagamento sostitutivo dello stesso);
  • DPR 254/99, art. 18 (Al pagamento sostitutivo del congedo ordinario si procede, oltre che nei casi previsti dall’articolo 14, comma 14, del decreto del Presidente della Repubblica n. 395 del 1995, anche quando lo stesso non sia stato fruito per decesso, per cessazione dal servizio per infermità o per dispensa dal servizio del dipendente, disposta dopo il collocamento in aspettativa per infermità).
  • DPR 164/02, art. 18 (Qualora indifferibili esigenze di servizio non abbiano reso possibile la completa fruizione del congedo ordinario nel corso dell’anno, la parte residua deve essere fruita entro l’anno successivo. Compatibilmente con le esigenze di servizio, in caso di motivate esigenze di carattere personale, il dipendente deve fruire del congedo residuo entro il primo semestre dell’anno successivo a quello di spettanza).
  • DPR 170/07, art. 11 (Al pagamento sostitutivo del congedo ordinario si procede, oltre che nei casi previsti dall’articolo 14, comma 14, del decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1995, n. 395 e dell’articolo 18, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 1999, n. 254, anche nei casi di transito ai sensi dell’articolo 8 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 339, dell’articolo 2 del decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali 7 ottobre 2005, n. 228, e dell’articolo 75 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 443, qualora non sia prevista nell’amministrazione di destinazione la fruizione del congedo maturato e non fruito).

Secondo una logica interpretazione della normativa risulterebbero escluse dal divieto di pagamento di trattamenti economici sostitutivi solo i casi in cui il rapporto di lavoro si estingua per cause indipendenti sia dalla volontà del dipendente che dalla capacità organizzativa del datore di lavoro.

Pertanto, se l’Amministrazione vorrà, in sede contrattuale introdurre meccanismi tesi a limitare o ampliare le ipotesi di monetizzazione delle ferie, ciò potrà avvenire solo attraverso regole idonee a garantire equità e trasparenza, nel segno della esclusione di ogni residuo spazio di discrezionalità.

Non possiamo permettere, in nome di presunte “esigenze di servizio” il consolidamento di particolari privilegi di ruolo o la codificazione surrettizia di strumenti di supplenza gestionale rispetto all’assenza di programmazione e di controlli da parte dell’Amministrazione, anche e soprattutto relativamente al mancato rispetto delle clausole previste dalla disciplina negoziale sul tema del riporto delle ferie non fruite nell’annualità successiva.

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