La Corte di cassazione, con la sentenza n. 35233/2025, ha precisato che il reato di oltraggio richiede la percezione dell’offesa da parte di soggetti esterni alla funzione svolta. Secondo la Corte, ciò che qualifica l’oltraggio non è l’attacco personale al singolo agente, ma la lesione del prestigio dell’amministrazione. Questa lesione si verifica soltanto quando l’offesa raggiunge un pubblico di terzi, in grado di rifletterla sull’immagine della funzione esercitata. La semplice presenza di altri pubblici ufficiali non basta, poiché essi operano nell’ambito della medesima attività istituzionale. Il procedimento che ha originato la decisione in commento nasce da un alterco nato dalla contestazione di una violazione al codice della strada. Dopo una discussione iniziale, il confronto è proseguito all’interno degli uffici, dove l’interessato dopo aver insistito per l’annullamento del verbale, ha apostrofato con espressioni offensive l’operatore.
Il giudice di primo grado aveva assolto l’imputato, mentre la Corte d’appello aveva ritenuto integrato l’oltraggio. La Cassazione ha annullato la condanna, rilevando che l’offesa non era stata percepita da soggetti estranei all’atto, con conseguente assenza dell’elemento tipico della “presenza di più persone”.
Secondo la Suprema Corte il reato richiede un contesto comunicativo capace di esporre l’offesa alla collettività non essendo sufficiente la gravità delle parole pronunciate e occorrendo che la condotta sia percepita da persone che non partecipano al procedimento o all’attività amministrativa in corso. In mancanza di questa esternalità, la lesione resta confinata nella sfera interpersonale e non coinvolge il prestigio dell’istituzione.
La stessa presenza di altri agenti o impiegati non integra la condizione della “pluralità di persone”, poiché questi non rappresentano il pubblico cui la norma fa riferimento.






