La Corte Costituzionale, con Sentenza 122/2024, depositata il 4 luglio 2024 e pubblicata sulla G.U. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2- quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui nega i benefici previsti per i superstiti delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata a chi sia «parente o affine entro il quarto grado di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento per l’applicazione o sia applicata una misura di prevenzione di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, ovvero di soggetti nei cui confronti risulti in corso un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale».
La Questione di legittimità era stata sollevata dalla Corte di Appello di Napoli secondo la quale la preclusione sarebbe irragionevole poichè poggerebbe su una massima d’esperienza che potrebbe essere agevolmente contraddetta e che, per altro verso, rischierebbe di pregiudicare proprio coloro che coraggiosamente si siano dissociati dalle famiglie d’origine e per questo abbiano perso un congiunto.
Peraltro, la finalità di evitare che le risorse pubbliche siano distolte a vantaggio di persone legate alla criminalità organizzata sarebbe già soddisfatta con il requisito dell’estraneità a tali ambienti.
Secondo il giudice a quo La «rigida previsione» dettata dalla legge, peraltro applicabile solo ai superstiti e non al «soggetto direttamente danneggiato», implicherebbe «una vera e propria discriminazione fondata esclusivamente sull’origine familiare», prospettando un contrasto con l’art. 3 Cost. anche in riferimento alla violazione del principio di eguaglianza.
Inoltre, nel precludere ogni prova contraria, la disposizione censurata lederebbe, infine, il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Costituzione.
I Giudici Costituzionali hanno ritenuto fondata la questione sollevata.
Della speciale elargizione prevista dalla legge 20 ottobre 1990, n. 302 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), beneficiano i «componenti la famiglia» (art. 4, comma 1, della legge n. 302 del 1990) e, dopo i fratelli e le sorelle conviventi a carico, i «soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della persona deceduta negli ultimi tre anni precedenti l’evento» e i «conviventi more uxorio» (art. 4, comma 2, della legge n. 302 del 1990).
Il coniuge di cittadinanza italiana o il convivente more uxorio e i parenti a carico, entro il secondo grado, di cittadinanza italiana, possono optare per un assegno vitalizio personale, non reversibile, di ammontare diversamente graduato in ragione del numero dei beneficiari (art. 5 della legge n. 302 del 1990).
Le elargizioni e l’assegno vitalizio attuano la solidarietà della Repubblica per le persone colpite negli affetti più cari da episodi di mafia o terrorismo.
La finalità solidaristica che permea tali provvidenze è avvalorata dai criteri di attribuzione, svincolati «dalle condizioni economiche e dall’età del soggetto leso o dei soggetti beneficiari e dal diritto al risarcimento del danno agli stessi spettante nei confronti dei responsabili dei fatti delittuosi» (art. 10, comma. 1, della legge n. 302 del 1990).
La connotazione solidaristica delle prestazioni, pur se estranee alla garanzia delle condizioni minime di sussistenza, impone scelte rispettose della parità di trattamento e coerenti con la ratio ispiratrice della disciplina di favore prevista dalla legge.
Secondo i giudici della consulta la disposizione censurata, pur legittima, è perseguita, tuttavia, con mezzi sproporzionati.
La sproporzione, secondo il giudice delle leggi, si apprezza sotto un duplice versante.
Anzitutto, la legge già prescrive requisiti tassativi e stringenti di meritevolezza con l’art. 1, comma 2, lettera b), della legge n. 302 del 1990 che sancisce il presupposto della totale estraneità della vittima diretta agli ambienti criminali.
Inoltre, l’art. 9-bis della legge n. 302 del 1990, introdotto dall’art. 1, comma 259, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), puntualizza che le condizioni di estraneità alla commissione degli atti terroristici o criminali e agli ambienti delinquenziali «sono richieste, per la concessione dei benefici previsti dalla presente legge, nei confronti di tutti i soggetti destinatari» e, dunque, non soltanto delle vittime dirette.
Al fine di fugare ogni dubbio e di scongiurare il rischio di interpretazioni elusive, il legislatore, con l’art. 2-quinquies, comma 1, lettera b), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito, dopo aver introdotto la disposizione censurata nel presente giudizio, ha scelto di subordinare il riconoscimento delle provvidenze ai superstiti alla condizione che «il beneficiario risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, ovvero risulti, al tempo dell’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava».
È dunque immanente al sistema la necessità di una verifica rigorosa della radicale estraneità al contesto criminale. L’estraneità, peraltro, non si esaurisce nella mera condizione di incensurato o, in negativo, nella mancanza di affiliazione alle consorterie criminali, ma postula, in positivo e in senso più pregnante, la prova di una condotta di vita antitetica al codice di comportamento delle organizzazioni malavitose.
Su chi rivendica elargizioni o assegni vitalizi, grava l’onere di dimostrare in modo persuasivo l’estraneità, che assurge a elemento costitutivo del diritto, e la carenza di una prova adeguata ridonda a danno di chi reclama le provvidenze.
L’assetto delineato dalla legge è già presidiato da accorgimenti e da cautele, che convergono nella necessità di una disamina accurata e conducono, ove permangano dubbi, al rigetto delle domande per difetto di prova dei presupposti normativi.
In secondo luogo, si deve rilevare che la presunzione è viziata da un’irragionevolezza intrinseca, poiché la legge conferisce rilievo a rapporti di parentela e di affinità fino al quarto grado, che includono una vasta categoria di persone e si caratterizzano per una diversa, talvolta più tenue, intensità del vincolo familiare.
Secondo la Consulta, con la presunzione assoluta censurata è sufficiente che il parente o l’affine entro il quarto grado sia sottoposto a un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o che a tale misura sia già in concreto assoggettato o che, in alternativa, sia coinvolto in un procedimento penale per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale.
La latitudine del meccanismo presuntivo consente, pertanto, di ipotizzare in modo agevole che, al rapporto di parentela o di affinità fino al quarto grado, possa non corrispondere alcuna contiguità al circuito criminale.
Peraltro, la condizione ostativa, nella sua assolutezza, pregiudica proprio coloro che si siano dissociati dal contesto familiare e, per tale scelta di vita, abbiano sperimentato l’isolamento e perdite dolorose e così come strutturata configura come uno stigma per l’appartenenza a un determinato nucleo familiare, anche quando non se ne condividano valori e stili di vita.
La presunzione assoluta vìola, inoltre, anche il diritto di agire e difendersi in giudizio (art. 24 Cost.), impedendo di dimostrare al soggetto interessato, con tutte le garanzie del giusto processo, di meritare appieno i benefici che lo Stato accorda.
Emerge nitida la necessità di un accertamento esaustivo, che dissipi le ombre e le incertezze e restituisca alla collettività un quadro circostanziato, senza imbrigliare nella rigidità delle presunzioni assolute la ricchezza, multiforme e contraddittoria, del reale.
Sarà dunque il ponderato apprezzamento del giudice a riscontrare, con il metro esigente che la normativa impone, la meritevolezza di chi richiede i benefici, alla stregua delle condizioni fissate, in termini generali, dall’art. 2-quinquies, comma 1, lettera b), del d.l. n. 151 del 2008, come convertito.
Nell’apprezzamento in concreto che il giudice è chiamato a compiere, i vincoli di parentela o di affinità richiedono un vaglio ancor più incisivo sull’assenza di ogni contatto con ambienti delinquenziali, sulla scelta di recidere i legami con la famiglia di appartenenza, su quell’estraneità che presuppone, in termini più netti e radicali, una condotta di vita incompatibile con le logiche e le gerarchie di valori invalse nel mondo criminale.
Per tali ragioni la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, lettera a), del decreto-legge 2 ottobre 2008, n. 151 (Misure urgenti in materia di prevenzione e accertamento di reati, di contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina), inserito dalla legge di conversione 28 novembre 2008, n. 186, e successivamente modificato dall’art. 2, comma 21, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «parente o affine entro il quarto grado».