Procedimento disciplinare: in tema di destituzione successiva a sentenza penale, è consentito il richiamo agli atti del procedimento penale – Cons. Stato sent. nr. 3148/06 del 14.02.2006

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Procedimento disciplinare: in tema di destituzione successiva a sentenza penale, è consentito il richiamo agli atti del procedimento penale. Il Consiglio di Stato ha precisato che, seppure tale sentenza non può essere assunta a presupposto unico del provvedimento sanzionatorio, è, tuttavia, consentito il richiamo agli atti del procedimento penale definito, per ritenere accertati fatti che siano stati espressamente ammessi o che risultino, comunque, addebitabili all’incolpato. La determinazione relativa all’entità della sanzione disciplinare, continua l’organo giudicante, è espressione di tipica valutazione discrezionale della P.A., di per sé insindacabile dal giudice amministrativo, tranne in casi in cui appaia manifestamente anomala o sproporzionata, per cui il giudice può soltanto verificare che l’atto sia sorretto da adeguata motivazione e basato su fatti particolarmente gravi tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di impiego.

 Cons. Stato, sez. VI, sent. nr. 3148/06 del 14.02.2006 – dep. 26.05.2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N. 3148/06

Reg.Dec.

N. 1008 Reg.Ric.

ANNO 2004

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n.1008 del 2004 proposto da Sig……………………. , rappresentato e difeso dagli avv.ti ………………………… ed elettivamente domiciliato presso lo studio dei medesimi in Roma, via ………………..

contro

il Ministero dell’ Interno, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è per legge domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n.12;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione I ter, n.11834/02 in data 11 dicembre 2002, resa tra le parti;

visto il ricorso con i relativi allegati;

visti gli atti tutti della causa;

visto l’atto di costituzione dell’Amministrazione dell’Interno;

viste le memorie prodotte dall’appellante a sostegno delle proprie difese;

alla pubblica udienza del 14 febbraio 2006, relatore il consigliere Domenico Cafini, uditi l’avv. Rosi e l’avv. dello Stato Tortora;

ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

1. Con decreto del Capo della Polizia in data 27.8.2001 veniva irrogata all’agente scelto Sig…………………….la sanzione disciplinare della destituzione ai sensi dell’art.7 nn. 1, 2, 3 e 4 del D.P.R. n.737 del 1981, a decorrere dal 4.9.2001.

Avverso tale decreto e avverso la deliberazione del Consiglio provinciale di disciplina in data 7.6.2001 – che a maggioranza di 4/5 aveva stabilito di infliggere detta sanzione, poiché, con il suo comportamento, l’interessato aveva posto in essere atti che rivelavano “la mancanza del senso dell’onore” ed erano “in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento, avendo violato dolosamente i propri doveri ed arrecando grave pregiudizio all’Amministrazione della P.S.” – l’agente predetto proponeva ricorso dinanzi al TAR per il Lazio, chiedendone l’annullamento.

Esponeva l’interessato nel suo gravame che il Tribunale di Roma lo aveva condannato, con sentenza in data 15.4.1999, alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione, riconoscendolo colpevole dei reati di cui agli artt. 319 e 81 c.p.., poiché, nella sua qualità di agente di Polizia di Stato in servizio presso la Questura di……………, Ufficio Stranieri, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso con altri cittadini italiani e stranieri, nelle sue funzioni, aveva ricevuto somme oscillanti tra le 150.000 e le 800.000 lire, ogni volta, per compiere atti contrari ai doveri assunti con il giuramento e non adempiere i doveri d’ufficio nell’interesse esclusivo della pubblica amministrazione, ed essendo stata accertata, in particolare, la responsabilità del ricorrente nell’avere rilasciato ex novo, ovvero rinnovato, permessi di soggiorno per il territorio nazionale, in palese assenza dei requisiti previsti dalla legge, a più cittadini stranieri.

Esponeva, altresì, l’istante di avere proposto appello contro la menzionata pronuncia e che la Corte di Appello di Roma, con sentenza divenuta esecutiva il 23.1.2001, aveva dichiarato di non doversi procedere nei suoi confronti, per intervenuta estinzione del reato per prescrizione.

A sostegno del gravame il ricorrente deduceva i seguenti motivi di diritto:

– violazione dell’art .9, comma 2, L. n. 19/1990;

– violazione del diritto di difesa, atteso che non sarebbe emerso dalla motivazione del provvedimento impugnato la giustificazione data dal Consiglio di disciplina in merito all’irrilevanza dei fatti, come emergenti dalla documentazione depositata dall’inquisito in sede di procedimento disciplinare;

– violazione e falsa applicazione dell’art.653 c.p.p., come novellato dalla legge 27.3.2001, n. 97, nel senso che il detto Consiglio non avrebbe proceduto ad un’autonoma istruzione del procedimento, limitandosi ad accogliere le risultanze del processo di primo grado.

Nel giudizio si costituiva l’Amministrazione dell’Interno, depositando documenti ed un rapporto nel quale veniva contestata la fondatezza del proposto ricorso.

2. Con la sentenza in epigrafe specificata, l’adito TAR respingeva il ricorso, ritenendo infondati sia la prima doglianza, in quanto basata su un erroneo presupposto di fatto, sia i restanti due motivi, con i quali era stata contestata l’attività svolta dal Consiglio di disciplina perché viziata da una complessiva carenza di istruttoria, consistente nella mancata autonoma valutazione dei fatti criminosi e nel mancato esame delle giustificazioni. E ciò in quanto, ad avviso dei primi giudici, da una parte, il Consiglio aveva tenuto conto nella specie, oltre che degli elementi accertati nel giudizio penale di primo grado, anche di ulteriori elementi di valutazione, autonomi rispetto alla sentenza penale di primo grado, ed aveva approfondito, inoltre, tutti gli aspetti della questione, operando nella consapevolezza che l’agente non aveva negato l’esistenza di alcuni fatti nella loro oggettiva consistenza, e in quanto, dall’altra, le censure mosse attenevano in realtà alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione, in ordine alla gravità dei fatti ed all’incidenza obiettiva degli stessi sul prestigio della Polizia, valutazione questa da ritenersi, per giurisprudenza pacifica, insindacabile da parte del giudice amministrativo, se non in caso di palese illogicità ed arbitrarietà, vizi nella specie insussistenti.

3. Contro tale sentenza è interposto l’odierno appello, affidato dall’interessato ai seguenti motivi di diritto:

a) erroneità della sentenza impugnata;

b) difetto di motivazione, carenza assoluta di istruttoria;

c) eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità, carenza dei presupposti; violazione art. 3 L. n. 241/1990.

Nell’attuale giudizio di appello si è costituito il Ministero dell’Interno che si è opposto al ricorso concludendo per il suo rigetto.

Con memoria depositata in prossimità della discussione del gravame e con note difensive prodotte all’udienza odierna la parte appellante ha ulteriormente svolto le proprie tesi, insistendo per l’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento della gravata sentenza.

4. Alla pubblica udienza del 14 febbraio 2006 la causa è stata, infine, assunta in decisione.

DIRITTO

1. Con la sentenza impugnata è stato respinto il ricorso dell’agente scelto di Polizia di Stato Sig…………………….avverso il provvedimento con il quale era stata inflitta la sanzione della destituzione dal servizio, con decorrenza 4.9.2001, ai sensi dell’art.7, n.1, 2, 3 e 4 del D.P.R. n.737/1981, in relazione ad alcuni fatti emersi nel corso del procedimento penale sopra menzionato, conclusosi – dopo la pronuncia di condanna del Tribunale di Roma in data 15.4.1999 alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione – con la sentenza della Corte di Appello di Roma del 19.12.2000, che ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti dell’interessato per intervenuta estinzione del reato.

Con l’odierno appello il ricorrente, nel riproporre in gran parte le censure mosse nel giudizio di primo grado, contesta la pronuncia del TAR e la legittimità, ivi riconosciuta, della sanzione espulsiva irrogatagli, deducendo i seguenti rilievi, dopo avere riprodotto il contenuto del provvedimento di contestazione degli addebiti di cui alla nota del funzionario istruttore in data 30.3.2001 e di parte del verbale del Consiglio di disciplina in data 7.6.2001:

a) erroneità della sentenza impugnata per non avere rilevato nel provvedimento censurato e negli altri atti del procedimento la mancanza di una valutazione da parte dell’Amministrazione in ordine alla controdeduzioni dell’incolpato nonchè alle sue difese e richieste istruttorie;

b) erroneità della detta sentenza, perché non avrebbe rilevato che l’unico presupposto su cui il Consiglio di disciplina aveva fondato la propria deliberazione era la sentenza penale di primo grado, non avendo tale organo espresso alcuna argomentazione circa le doglianze mosse dal dipendente incolpato, sorrette peraltro da adeguata documentazione, e non avendo comunque proceduto l’Amministrazione ad una nuova ed autonoma istruttoria;

c) erroneità della medesima pronuncia, in quanto non sarebbe stata rilevata l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per contraddittorietà, illogicità, carenza dei presupposti, nonché per violazione del principio generale dell’obbligo della motivazione.

2. Le proposte censure non possono essere positivamente valutate.

2.1. Infatti, come correttamente statuito dal TAR, il procedimento penale che ha riguardato l’agente scelto Sig…………………….non si è concluso con una sentenza di proscioglimento, e quindi con l’esclusione della sua responsabilità, bensì con una pronuncia dichiarativa dell’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, la quale, per la specifica sua natura, non rientra nell’ambito delle sentenze assolutorie con formula piena, atteso che con essa vengono constatati soltanto, in ordine all’accertamento delle responsabilità penali dell’imputato, gli effetti preclusivi del decorso del tempo.

Peraltro, l’interessato avrebbe potuto rinunciare al beneficio che gli derivava da detta pronuncia dichiarativa, chiedendo una decisione nel merito che lo prosciogliesse da ogni responsabilità penale, sicchè, come evidenziato dai primi giudici, il riferimento fatto dallo stesso alla non applicazione dell’art. 653 c.p.p. non era nella specie pertinente e utile, giacchè l’Amministrazione ha effettuato una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal Tribunale.

Infatti, nel caso in questione il Consiglio di disciplina – dopo avere proceduto all’esame degli atti relativi al procedimento disciplinare de quo nella seduta del 24 maggio 2001 – ha tenuto conto, oltre che degli elementi accertati nel giudizio di primo grado, di quanto emerso nel corso del procedimento disciplinare, come dimostrato dal verbale di detta seduta, specialmente con riguardo alla lettura data ai componenti del Collegio delle giustificazioni del dipendente inquisito, alle interrogazioni sui singoli fatti a lui contestati e all’ampio spazio che l’organo collegiale ha ritenuto di dare alle argomentazioni della sua difesa, riferite anche a taluni vizi del procedimento.

Ed invero, come può leggersi dal verbale in data 7 giugno 2001 relativo alla trattazione orale svoltasi innanzi al Consiglio di disciplina, la deliberazione di tale organo, posta alla base del provvedimento espulsivo impugnato è stata assunta, dopo che il Presidente aveva reso noti i precedenti disciplinari e il servizio dell’inquisito, aveva letto le dichiarazioni dell’avvenuto esame, da parte propria e degli altri membri, degli atti dell’inchiesta formale ed aveva fatto leggere al Segretario la contestazione di addebiti, le giustificazioni e la relazione del funzionario istruttore; ed inoltre dopo che tre componenti del Collegio e lo stesso Presidente avevano rivolto varie domande all’inquisito, ricevendone le relative risposte.

D’altronde, nelle conclusioni dello stesso verbale viene dato chiaramente atto che, oltre che dall’esame delle motivazioni della sentenza suddetta, è dall’esame “del procedimento nonché dai relativi atti collegati” che è emerso il fatto che l’agente scelto in questione aveva posto in essere atti che rivelavano mancanza del senso morale, in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento.

Appare evidente, pertanto, che il Consiglio di disciplina nel procedimento di cui trattasi ha acquisito – diversamente da quanto assunto dall’interessato – elementi di giudizio ulteriori ed autonomi rispetto alla sentenza penale del Tribunale di Roma, approfondendo i vari aspetti della vicenda che aveva coinvolto l’agente inquisito ed operando anche (come opportunamente messo in luce nella sentenza gravata) “nella consapevolezza” che il medesimo non aveva escluso l’esistenza di alcuni fatti contestati.

2.2. Deve osservare, peraltro, il Collegio che, in tema di destituzione successiva a sentenza penale, la giurisprudenza di questo Consiglio, da una parte, ha precisato che, seppure tale sentenza non può essere assunta a presupposto unico del provvedimento sanzionatorio, è, tuttavia, consentito il richiamo agli atti del procedimento penale definito, per ritenere accertati fatti che siano stati espressamente ammessi o che risultino, comunque, addebitabili all’incolpato, sicchè il riferimento alle risultanze processuali penali, se non addotto quale esclusivo fondamento della valutazione disciplinare, è da considerarsi idoneo a concorrere validamente alla formulazione del giudizio conclusivo di responsabilità del dipendente.

Dunque, coerentemente con quanto detto, il Consiglio di disciplina, lungi dal recepire acriticamente le conclusioni della sentenza penale, ha preso giustamente atto, come accennato, valutandoli ai fini disciplinari, dei fatti risultanti dal procedimento penale nella specie già svolto ( peraltro in parte ammessi in sede di interrogatorio reso davanti a detto Collegio dall’interessato), esprimendo in definiva un giudizio, caratterizzato da discrezionalità – non arbitrario, nè irragionevole, nè viziato da travisamento dei fatti – in base al quale nella condotta così tenuta dal dipendente inquisito era rilevabile “la mancanza del senso dell’onore”, nonché il grave contrasto “con i doveri assunti con il giuramento, avendo violato dolosamente i propri doveri ed arrecando grave pregiudizio all’Amministrazione della P.S.”

2.3. Alla stregua delle considerazioni che precedono – passando all’esame degli specifici motivi dell’appello – non può ritenersi sussistente l’eccepito difetto di istruttoria, avendo la Commissione di disciplina adeguatamente valutato, ai fini disciplinari, le risultanze delle indagini penali, nonchè le controdeduzioni svolte in sede disciplinare dall’interessato, peraltro finalizzate essenzialmente a minimizzare i fatti contestati (in parte anche ammessi dal medesimo), ed avendo ritenuto, nell’ambito della propria non sindacabile discrezionalità, sufficienti, ai fini della deliberazione da assumere, gli elementi acquisiti agli atti del procedimento.

E’ dunque infondato il primo rilievo relativo all’asserita erroneità della sentenza impugnata per non avere rilevato nel provvedimento censurato e negli altri atti del procedimento la mancanza di una valutazione da parte dell’Amministrazione delle sue difese e della sue richieste istruttorie; come è pure infondata la seconda doglianza, con la quale si sostiene che la detta sentenza non avrebbe rilevato che l’unico presupposto su cui il Consiglio di disciplina aveva fondato la propria deliberazione era la sentenza penale di primo grado e non avrebbe fornito alcuna argomentazione circa le documentate censure mosse, in relazione alle quali il Ministero avrebbe dovuto procedere ad una nuova ed autonoma istruttoria.

Anche il terzo ed ultimo rilievo – circa la presunta erroneità della medesima pronuncia, in quanto non sarebbe stata rilevata dai primi giudici l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per contraddittorietà, illogicità, carenza dei presupposti, nonché per violazione del principio generale dell’obbligo della motivazione – deve ritenersi destituito di fondamento, risultando i provvedimenti impugnati adeguatamente istruiti e motivati, e comunque non inficiati, per quanto sopra precisato, dai vizi dedotti.

2.4. Osserva, infine, il Collegio che la determinazione relativa all’entità della sanzione disciplinare – in linea con da giurisprudenza di questo Consiglio – è espressione, in ogni caso, di tipica valutazione discrezionale della P.A. datrice di lavoro, di per sé insindacabile dal giudice amministrativo, tranne in casi, nella specie non sussistenti, in cui appaia manifestamente anomala o sproporzionata, per cui il giudice non può sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione, ma può soltanto verificare che l’atto sia sorretto da adeguata motivazione e basato su fatti particolarmente gravi tali da indurla a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di impiego, come appunto avvenuto nel caso in esame, secondo quanto emerge chiaramente dal contenuto della sentenza appellata.

L’appello deve essere, pertanto, respinto.

Sussistono nondimeno in ragione della delicatezza della questione prospettate giuste ragioni per compensare le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, pronunciando definitivamente sul ricorso in epigrafe lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2006, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale – Sez.VI – nella Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:

Claudio Varrone Presidente

Luigi Maruotti Consigliere

Giuseppe Romeo Consigliere

Luciano Barra Caracciolo Consigliere

Domenico Cafini Consigliere Est.

Presidente

f.to Claudio Varrone

Consigliere Segretario

f.to Domenico Cafini f.to Glauco Simonini

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il………………26/05/2006……………….

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Direttore della Sezione

f.to Maria Rita Oliva

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