Illustrissimo Avvocato,
ho preso visione di una nota a Lei attribuita, pubblicata in questi giorni sul sito di una organizzazione sindacale minoritaria della Polizia di Stato, nella quale si produce in un’appassionata dialettica che prende a riferimento le opinioni giuridiche espresse in un comunicato del Siulp, che mi onoro di rappresentare.
Non intendo insistere più del dovuto sulle capziose argomentazioni con le quali quella sigla minoritaria promuove il ricorso da Lei patrocinato, Io la differenza, di non poco conto, tra indennizzo e risarcimento, nonostante quel che Lei pensa e scrive, la conosco assai bene. Sarà il caso però che lo spieghi ai Suoi interlocutori, i quali sembrano in proposito avere le idee parecchio confuse. Lo dico perché mentre Lei afferma, lapidariamente, che “Per il periodo antecedente alla sentenza del 2015 occorre richiedere – solo – l’indennizzo”, la sigla sindacale minoritaria per conto della quale Lei agisce prospetta di far valere un “diritto ad ottenere un risarcimento del danno e l’indennizzo dovuto fin dal mese di gennaio 2010 per un ammontare di circa € 12.000,00, salvo somma maggiore o minore ritenuta di giustizia dall’autorità adita (€ 130 netto – 212 lordi) per ciascuno dei mesi intercorrenti da gennaio 2010 ad oggi”.
Lascio da parte anche i Suoi giudizi sul merito dell’operato e le competenze del Siulp, che descrive con toni non proprio lusinghieri, e La inviterei ad essere un attimino meno livoroso quando si addentra in territori a lei sconosciuti quali quelli della credibilità sindacale. Se non altro per evitare di incorrere in sguaiati refusi – non siamo docenti, se mai non Le fosse chiaro – e per il dovuto rispetto nei confronti degli oltre 26 mila iscritti che, per quanto in parecchi da tempo immemore compiano titanici sforzi denigratori, continuano a fare del Siulp il sindacato della Polizia di Stato maggiormente rappresentativo. E non di poco.
Le perplessità rispetto al suo libello, per tornare nel merito della questione, riguardano la ricostruzione giuridica da Lei offerta. Se pensava di spaventarmi con la Sua sprezzante sicumera, mi creda, ci vuole ben altro. E non saranno certo i suoi strali spuntati a mettermi in difficoltà.
Né credo, ed è quel che qui più conta, bastino le sue ardimentose grida a superare i limiti posti dalla sentenza 178 del 2015 della Corte costituzionale. Nella quale si afferma che l’accertata illegittimità costituzionale del blocco della contrattazione del pubblico impiego “spiega i suoi effetti a seguito della pubblicazione di questa sentenza” e “lascia impregiudicati, per il periodo già trascorso, gli effetti economici derivanti dalla disciplina esaminata”.
Confesso che, con un simile lapidario arresto, non riesco a comprendere come si possa pensare di invocare qualsivoglia ristoro per il periodo che precede la pubblicazione della sentenza. E, mi creda, per quanto dirò appresso, sono anche in buona compagnia.
Perché vede, a tacer d’altro, mi pare le sfugga che la sentenza in questione non afferma affatto l’illegittimità costituzionale del blocco per la violazione al diritto costituzionale della giusta retribuzione, tutelato dall’art. 36 della Costituzione. Anzi, sul punto specifico respinge le censure sollevate dai giudici rimettenti. L’illegittimità viene infatti dedotta solo in relazione alla violazione della libertà sindacale e del corrispondente diritto alla contrattazione, tutelato dall’art. 39 della Costituzione.
Ed è anche per questo che ritengo difficile poter immaginare sia percorribile un qualsivoglia percorso risarcitorio e/o indennitario. Sia chiaro, non è che io pretendo di fare prevalere la mia opinione su quella di un affermato professionista qual Lei è.
Mi limito però a segnalarLe che il mio punto di vista è maturato a seguito della lettura dei pareri di numerosi altri giuristi, che magari, a suo giudizio non saranno in grado di esprimere il Suo medesimo carisma forense. Ma fossi in Lei – e nei colleghi indecisi se ricorrere o meno – non sottovaluterei quelli che considero più che apprezzabili approfondimenti ermeneutici. Su tutti, anche per lo stile facilmente fruibile, suggerisco, oltre la lettura dell’articolo apparso sul quotidiano Il Sole 24ore, che le allego per facilità di consultazione, di visionare il parere dell’Avvocato Coronas – che, sempre per Sua praticità, Le allego in copia – pubblicato sui siti internet di numerose associazioni di categoria (www.infodifesa.it, www.ficiesse.it). Il quale, quanto al periodo antecedente la pronuncia della Corte Costituzionale, giunge – ovviamente con un livello di raffinatezza incomparabilmente superiore al mio – alle mie medesime conclusioni. E precisa altresì come, per il periodo successivo alla sentenza 178/2015 della Corte Costituzionale, sia opportuno valutare con estrema cautela la proposizione di eventuali ricorsi. Proprio perché, avendo il Governo riaperto le trattative contrattuali, ed in vista del prossimo rinnovo contrattuale, potrebbero essere venuti meno i censurati presupposti di illegittimità.
Abbia infine la pazienza di accettare un minimo di contraddittorio sull’ultima delle questioni da Lei utilizzata per qualificare il Siulp come degno di poca affidabilità. Faccio riferimento alla condanna alle spese in caso di soccombenza, argomento rispetto al quale Lei addebita al Siulp la “completa ignoranza e disinformazione”.
Orbene, una volta ancora, per quanto Lei si ostini a considerarci poco più che ciarlatani che trovano “fin troppo facile suggerire di non azionare i propri diritti quando di quei diritti non si ha nessuna contezza”, sono curioso di sapere se per caso è a conoscenza, tra le varie, di una recente ordinanza della Corte di Cassazione, per la precisione la n. 19043 del 2017 della Sezione Lavoro. Una vicenda nella quale, pur esistendo giurisprudenza favorevole ai lavoratori ricorrenti, presupposto che la stessa Corte di Cassazione ammette, e che quindi in linea di principio escludeva profili di temerarietà del ricorso, li ha condannati al pagamento delle spese liquidate nella misura di ben 13.500,00 (tredicimilacinquecento!) euro, oltre ad oneri accessori.
Osservo poi che Lei, a confutazione dei nostri timori, che credo di aver dimostrato sono tutti tranne che peregrini, eccepisce che una “denegata, remota, improbabile condanna alle spese, diverrebbe oggetto di immediato appello al Consiglio di Stato, senza ulteriori costi per gli iscritti aderenti al ricorso”. Prendo atto che promette di farsi carico di un eventuale fase di gravame. Fatico però ad accettare che, per l’ennesima volta, una di troppo, Lei pensi di avere a che fare con degli sprovveduti. Onerarsi degli incombenti per l’eventuale ricorso in appello non significa affatto coprire anche le spese di lite liquidate per l’eventuale soccombenza. O mi sbaglio?
Auspico pertanto che da ora in avanti Lei abbia la compiacenza di riferirsi al Siulp con esternazioni più misurate, e che abbia altresì la premura di verificare i termini non certo corrispondenti ai canoni di trasparenza e di correttezza con cui i suoi referenti, intendo quelli della minoritaria sigla da cui ha avuto mandato, vanno in giro a sollecitare l’adesione al ricorso che Lei intende patrocinare.
Quanto al Siulp, continueremo a dissuadere i colleghi che dovessero rivolgersi a noi per capire l’opportunità ed il fondamento del ricorso che Lei patrocina. Se ne faccia una ragione, perché il diritto di critica ha dei limiti, e per stavolta mi sforzo di credere che siano stati rispettati.
Allego parere Avvocato Coronas pubblicato su www.ficiesse.it
BLOCCHI CONTRATTUALI: PREMATURO FARE RICORSO FINCHÉ È APERTA LA “PARTITA DEI RINNOVI”
giovedì 21 settembre 2017
Riportiamo di seguito il parere dello Studio Legale Coronas di Roma sulla sostenibilità di ricorsi in tema di “blocco contrattuale” ex lege 78 del 2010
Come noto, il decreto-legge n.78/2010, convertito dalla legge n.122/2010, ha sospeso “senza possibilità di recupero”, per il triennio 2010-2012, le procedure contrattuali e negoziali nel pubblico impiego e, nel contempo, ha “congelato”, per gli anni 2011, 2012 e 2013, il trattamento retributivo del personale pubblico, contrattualizzato e non (ivi compresi i dirigenti), ed il trattamento retributivo delle progressioni di carriera comunque denominate.
Con le sentenze n.304/2013, n.310/2013, n.154/2014 e n.129/2014, la Corte Costituzionale già aveva ritenuto infondati i rilievi di illegittimità costituzionale sollevati in relazione alla precitata normativa per violazione dell’art.36 Cost., quanto al “congelamento” del trattamento retributivo e di progressione di carriera, e per violazione dell’art.39 Cost., quanto alla sospensione delle procedure contrattuali e negoziali, e ciò perché: “Il carattere generale delle misure varate dal d.l. n. 78 del 2010, inserite in un disegno organico improntato a una dimensione programmatica, scandita su un periodo triennale, risponde all’esigenza di governare una voce rilevante della spesa pubblica, che aveva registrato una crescita incontrollata, sopravanzando l’incremento delle retribuzioni del settore privato. Sono dunque da disattendere le censure di violazione degli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost., in quanto il sacrificio del diritto alla retribuzione commisurata al lavoro svolto e del diritto di accedere alla contrattazione collettiva non è, nel quadro ora delineato, né irragionevole né sproporzionato” (Corte Cost. n.178/2015).
In seguito, investita dell’esame di analoghe censure di illegittimità costituzionale proposte nei confronti delle norme di proroga del “congelamento” del trattamento retributivo (fino al 31 dicembre 2014) e del blocco della contrattazione economica (fino al 31 dicembre 2015), la Corte Costituzionale ha pronunciato la sentenza n.178/2015, con la quale:
- ha ritenuto che “le censure formulate con riguardo all’estensione delle misure restrittive (dei trattamenti retributivi, n.d.r.) oltre i confini temporali originariamente tracciati non si dimostrano fondate, al pari di quelle che riguardavano le originarie disposizioni del d.l. n.78 del 2010”, perché “non risulta dimostrato l’irragionevole sacrificio del principio di proporzionalità della retribuzione”;
- ha giudicato fondate, invece, le questioni sollevate in relazione alla proroga del “regime di sospensione per la parte economica delle procedure contrattuali e negoziali in riferimento all’art.39, primo comma, Cost.”, in quanto determina un “protrarsi del blocco negoziale, così prolungato nel tempo da render evidente la violazione della libertà sindacale”.
Dunque, le “misure restrittive” sono state confermate legittime sotto il profilo della estensione temporale del congelamento delle retribuzioni, siccome riconducibile, nella durata originaria come in quella prorogata, ad un “disegno organico” di contenimento della spesa pubblica “né irragionevole né sproporzionato”.
Al contrario, è stata considerata illegittima l’ulteriore sospensione dell’autonomia negoziale, perché “il carattere ormai sistematico di tale sospensione sconfina … in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti …, ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo comma, Cost.)”.
Diversamente dal consueto, le norme di proroga “del regime di sospensione della contrattazione collettiva” sono state dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale “a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione” della sentenza n.178/2015.
Dunque, non s’è voluto far retroagire l’effetto caducatorio della pronuncia fino al momento di entrata in vigore della normativa annullata (1° gennaio 2013), bensì “i limiti che si frappongono allo svolgimento delle procedure negoziali riguardanti la parte economica” sono stati “rimossi per il futuro”, mentre, “per il periodo già trascorso”, è stato espressamente affermato che restano “impregiudicati … gli effetti economici derivanti dalla disciplina esaminata”.
L’intento è stato, verosimilmente, quello di evitare il rischio, che “eventuali pretese risarcitorie o indennitarie” – già dichiarate infondate come “corollario” della ritenuta infondatezza delle censure di incostituzionalità incentrate sulla violazione del principio di proporzionalità della retribuzione – potessero poi essere fatte valere come “corollario” della ritenuta fondatezza invece delle censure di incostituzionalità incentrate sulla violazione della libertà sindacale.
Infatti, posto che, come la stessa Corte ricorda, “la libertà sindacale è tutelata dall’art.39, primo comma, Cost., nella sua duplice valenza individuale e collettiva, ed ha il suo necessario complemento nell’autonomia negoziale” – che attraverso “il contratto collettivo contempera in maniera efficace e trasparente gli interessi contrapposti delle parti e concorre a dare concreta attuazione al principio di proporzionalità della retribuzione” –, non sarebbe fuori luogo sostenere che, poiché un blocco illegittimo dell’autonomia negoziale preclude illegittimamente l’attuazione del principio di proporzionalità della retribuzione, la caducazione del blocco consenta, a quanti sono stati lesi dalla irragionevole/ingiusta compressione della libertà sindacale, di agire in giudizio per ottenere la riparazione del pregiudizio subito.
Ebbene, dichiarando “impregiudicati, per il periodo già trascorso, gli effetti economici derivanti dalla disciplina esaminata”, la Corte sembra appunto aver inteso sbarrare la strada ad eventuali azioni risarcitorie o indennitarie, conseguenti alla operata declaratoria di illegittimità della proroga del blocco della contrattazione.
In disparte, in questa sede, qualunque commento sulla soluzione adottata dalla sentenza n.178/2015, il contenuto e la portata dispositiva della pronuncia sono un dato con il quale occorre confrontarsi.
Il che, ad avviso di chi scrive, significa prendere atto che, oltre che in relazione all’iniziale triennio di sospensione delle procedure negoziali (2010-2012), anche in relazione a quello di successiva proroga (2013-2015), non pare residuare spazio, almeno in ambito nazionale, per eventuali azioni risarcitorie o indennitarie.
Detto quanto sopra “per il periodo già trascorso”, si rileva, quanto al “presente”, che gli scorsi mesi di giugno e di luglio hanno visto finalmente la convocazione dei tavoli preliminari per i rinnovi contrattuali 2016-2018.
L’effetto di sblocco delle procedure negoziali derivante dall’intervento della Corte Costituzionale ha quindi cominciato a prodursi, sebbene con un ritardo che la giurisprudenza ha già avuto modo di rilevare e di stigmatizzare, sottolineando come “l’inerzia della pubblica amministrazione potrebbe vanificare, e anzi eludere, la rimozione della causa di sospensione della contrattazione collettiva compiuta per effetto della sentenza 178/2015” (v. Tribunale di Roma, Sezione III Lavoro, 16.09.2015, n.7552). .
Finché la “partita” dei rinnovi è aperta, comunque, appare prematuro, sempre a giudizio di chi scrive, pensare di dare avvio ad iniziative giudiziali volte a far valere pretese risarcitorie o indennitarie per la parte già trascorsa del triennio 2016-2018 e per quella che ancora trascorrerà prima della chiusura della tornata negoziale.
Alle già non lievi difficoltà di impostare azioni del genere, infatti, è prudente non aggiungere anche il rischio di agire per lamentare un pregiudizio, che l’accordo che scaturirà dal dispiegarsi della “dialettica contrattuale”, già solo per il fatto di essere stato raggiunto, potrebbe svuotare di qualunque fondatezza.
DA “IL SOLE 24ORE.COM”
La Sentenza della Corte Costituzionale 24 giugno 2015, n. 178 con riferimento all’art.39 della Costituzione ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale sopravvenuta, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nei termini indicati in motivazione, del regime di sospensione della contrattazione collettiva, risultante da” le norme succedutesi nel tempo sul blocco di contrattazione.
Nella medesima pronuncia il giudice delle leggi ha dichiarato tutte inammissibili o manifestamente infondate le questioni sollevate dal Tribunale di Roma e da quello di Ravenna, entrambi in funzione di Giudice del lavoro, in particolare quelle fondate sul principio del “diritto al giusto salario” pronunciando “L’infondatezza delle censure incentrate sull’art. 36, primo comma, Cost. ha come corollario l’infondatezza di eventuali pretese risarcitorie o indennitarie.” (punto 14.2 del Considerato in diritto).
In sintesi è illegittimo il blocco della contrattazione a far data dalla pubblicazione della sentenza (29/07/2015) ma è fatto salvo il “congelamento” degli stipendi e delle indennità accessorie, anche con riferimento alle promozioni o avanzamenti di carriera aventi effetti solo giuridici e non economici, nonché dell’indennità di vacanza fissata agli importi del 2010, senza alcuna possibilità di “recupero” in tempi successivi.
Emblematico al riguardo è il lapidario titolo di un commento pubblicato dal Sole 24 ore il giorno della decisione (24 giugno 2015) “Statali, Consulta: blocco dei contratti illegittimo, ma non per il passato” (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-06-24/consulta-blocco-contratti-pa-illegittimo-ma-non-il-passato-151049.shtml)
Per avere qualche possibilità di buon esito da un ricorso in materia richiederebbe una nuova pronuncia della Corte Costituzionale cui il giudice investito del caso, per gli appartenenti alla Polizia di Stato il TAR che ha giurisdizione esclusiva ex art.133 lett.i) del D.Lgs. 02/07/2010, n. 104, si dovrebbe rivolgere eccependo l’illegittimità costituzionale delle norme in questione allegando motivazioni diverse da quelle respinte nel giudizio in esame e che riescano a trovare accoglimento.
Questo percorso oltre all’elevato tasso di alea insito, l’azione giudiziale incontrerebbe l’evidente difficoltà di ottenere un così repentino mutamento di orientamento della Corte, senza trascurare il fatto che dell’Avvocatura dello Stato, in una memoria firmata dall’avvocato dello Stato Vincenzo Rago, aveva quantificato l’onere della contrattazione di livello nazionale, per il periodo 2010-2015, relativo a tutto il personale pubblico non sarebbe stato « inferiore a 35 miliardi», con «effetto strutturale di circa 13 miliardi» annui dal 2016.