Riportiamo l’intervista pubblicata su Polizia e Democrazia, a cura di Barbara Notaro Dietrich, al Segretario Generale Felice Romano
Per Felice Romano, Segretario Generale del Siulp la riforma della Polizia del 1981 è ancora attuale ed efficace. Questo non toglie che vi sia bisogno di un adeguamento con l’attualità mantenendo il medesimo spirito riformista con cui nacque
Quest’anno corrono trent’anni dalla riforma della polizia, con la nascita della Polizia di Stato. Una grande riforma dovuta essenzialmente a un movimento democratico degli stessi poliziotti, che per farsi sentire forzarono la mano ai politici, e all’inizio anche ai sindacati. Ricordandola, possiamo anche chiederci quanto sia rimasto di quello spirito?
Mi lasci innanzitutto dire che condivido che la riforma della Polizia è stato non solo una grande e felice intuizione del Parlamento dell’epoca ma è anche l’unica riforma che in questo Paese non solo è rimasta inalterata per trent’anni, ma è ancora attuale ed efficace pur se bisognevole di quale “ritocco” per attualizzarla ai processi geo-politici che negli ultimi anni hanno completamente trasformato il mondo costruendo quello che viene comunemente detto un “villaggio globale”.
In questo senso, il movimento dei “poliziotti democratici”. Che nasce alla fine degli anni ’60 e si consolida all’inizio degli anni ’70; più che avere il merito di aver “forzato la mano”ha rappresentato in realtà la consapevolezza e la capacità degli addetti ai lavori, che per uscire da quegli anni bui che imperversavano sul nostro Paese era necessario operare una trasformazione radicale che sostituisse la rigidità del modello militare con un modello civile, capace di essere più flessibile alle esigenze del Paese ma anche più vicino ai cittadini e dentro il mondo del lavoro.
Perché solo essendo all’interno della società i poliziotti potevano costituire la base per affrontare e risolvere le contestazioni studentesche post 68 e quelle degli operai, che in quel momento, complice il disorientamento sociale che si stava registrando, potevano essere coinvolti nella strategia della tensione poste in essere dai rivoluzioni del brigatismo rosso, in alternativa allo stragismo di destra, che fece piombare il Paese nei cosiddetti “anni di piombo”.
Certo all’inizio i partiti erano titubanti, io credo più per uno scetticismo dettato dalla burocrazia e dagli apparati che erano conservatori ed autoreferenziali più che da perplessità proprie nel lanciare questa grande scommessa.
Determinante, in tale senso, è stata la presa di coscienza e il ruolo che hanno giocato le tre grandi confederazioni sindacali di questo Paese poiché ebbero il merito di far prendere atto alla politica e al governo di allora che solo l’affermazione della democrazia e la salvaguardia dei diritti dei lavoratori della sicurezza avrebbe potuto portare quello slancio necessario a sconfiggere il terrorismo e rinsaldare la coesione sociale che in quei giorni, come la storia purtroppo ci ricorda, era ormai giunta al capolinea.
Ecco perché la straordinarietà di questa riforma risiede proprio nello spirito riformista che, animando il movimento dei poliziotti democratici, ha consentito questa straordinaria trasformazione che ancora oggi anima i poliziotti tutti ed in particolare il SIULP e i suoi dirigenti.
Con la riforma del 1981 la Polizia ha assunto pienamente il ruolo di un’istituzione. Ritiene che anche sul piano operativo la sua capacità nella difesa della legalità e della sicurezza sia aumentata? Quale significati e quali risultati ha avuto, ad esempio, l’ingresso delle donne in Polizia in condizioni di completa parità?
Non vi è dubbio che la Polizia di Stato oggi rappresenta una salda e vera Istituzione al servizio del Paese; e ciò è testimoniato soprattutto dal fatto che i cittadini italiani in tutti i sondaggi che vengono effettuati in tal senso, tra tutte le Istituzioni del nostro Paese, pongono ai primi posti la Polizia di Stato per fiducia e credibilità. Sul piano dell’operatività è sicuramente, nel mondo, una delle più professionali.
Questa professionalità e questa capacità nel raggiungere i risultati, trova sicuramente fondamento nei tre pilastri portanti della riforma: la figura dell’investigatore “all’americana” ovvero il nuovo ruolo degli ispettori, la costituzione di un ruolo tecnico a supporto delle attività istituzionali della polizia di stato e qui gli eccezionali risultati raggiunti in materia di indagine su internet come pedo-pornografia, ciber-bullismo e difesa delle infrastrutture essenziali per il Paese ma per l’intera comunità mondiale ne sono ampia e comprovata testimonianza, e l’ingresso delle donne.
Quest’ultimo è sicuramente un elemento non solo straordinario perché rivoluzionario sotto il profilo culturale, ma ha rappresentato quel valore aggiunto che le donne portano con sé per un’attività che nell’essere “d’impatto” ha acquisito metodicità, intuito ma anche genialità e cortesia nei rapporti con il mondo con cui la funzione di polizia si confronta quotidianamente.
Va comunque sottolineato un aspetto: i risultati dell’azione della Polizia di Stato non sono slegati dall’azione legislativa e dagli investimenti che i governi operano sul terreno della sicurezza. Parimenti è altrettanto influente la capacità del sistema giustizia di intervenire, al passo dell’azione di polizia, in modo tempestivo per garantire l’immediatezza e l’effettività della pena. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è quello che determina, in modo fondamentale, la percezione che il cittadino ha dell’azione complessiva per garantire la sua sicurezza.
Sono passati trent’anni, i tempi e i modi della politica sono mutati. Come si può valutare l’attenzione che Parlamento, governo e partiti riservano alle forze di polizia?
Lo dicevo prima, forse in maniera velata, e per questo è opportuno estrinsecare meglio questo concetto. Purtroppo negli ultimi anni le scelte operate dai vari governi che si sono susseguiti, e quindi mi riferisco ad entrambi gli schieramenti sia quello di centro-destra che a quello di centro-sinistra, hanno posto in essere un’azione costante e progressiva di tagli alle risorse e di un processo involutivo rispetto alla legge di riforma che vede sempre più l’utilizzo degli apparati militari e delle stesse Forze Armate in compiti di ordine e sicurezza pubblica. Una vera e propria tragedia. Infatti, se la prima, ovvero quella dei tagli risente dell’andamento generale della gestione democratica della nostra collettività internazionale, europea e quindi nazionale, atteso che il potere economico finanziario è divenuto talmente arrogante da relegare la politica ad un ruolo di secondo piano se non addirittura di vera e propria comparsa nel governo dei Paesi, la seconda, poiché attiene a scelte meditate è ancora più grave e deleteria alla sicurezza e alla democrazia.
In quale misura i tagli decisi dal governo tolgono potenzialità all’operato della polizia ?
Nessun sistema può funzionare, e ancora meglio perfezionarsi, se gli mancano le risorse necessarie affinché ciò sia possibile. I tagli operati negli ultimi dieci anni hanno indebolito la funzione e l’azione di polizia, andando ad intaccare l’operatività ed in particolare quei servizi che sono di diretta fruibilità da parte dei cittadini.
Quelli operati nell’ultimo biennio hanno messo a serio rischio il funzionamento stesso di quello che abbiamo costruito negli ultimi trent’anni; perché tagliare i fondi ai capitoli di funzionamento significa, oltre al mancato riconoscimento degli incrementi salariali, significa tagliare le pattuglie sul territorio, la chiusura di alcuni uffici in territori decentrati e soprattutto la limitazione nell’operatività anche di tutti quelli che “sopravvivono”.
Basti solo pensare al taglio sulla benzina, sui capitoli per la riparazione dei mezzi, l’acquisto di armi e computer o della stessa carta per la denunce; emblematico è stato il caso del Commissariato Libertà di Palermo dove i cittadini per poter sporgere denunce sono stati costretti ad andare a comprare la carta e regalarne una risma al commissariato. La cosa grave è che il tutto è avvenuto in un clima di rassegnazione pari a quello di un Paese del Terzo Mondo. Questi i danni prodotti dai tagli.
Questa condizione di disagio non rischia di alimentare uno stato di malessere tra coloro che sono chiamati quotidianamente a svolgere un lavoro duro, difficile, e spesso pericoloso?
Non vi è dubbio che quando scarseggiano i mezzi a disposizione il malessere emerge prepotentemente ed è solo il primo segnale di un allarme che non va sottovalutato. Perché, nonostante la grande professionalità degli operatori e la loro totale abnegazione al servizio per garantire la sicurezza ai cittadini, la mancanza di mezzi mortifica e riduce la capacità di dare risposte adeguate creando le condizioni per una disaffezione al lavoro che è il germoglio sul quale si può sviluppare un processo di deterioramento di un’organizzazione che, invece, ha bisogno di modus operandi accertati e approvati per le situazioni da affrontare, motivazione del personale che li mette in atto e, mezzi per la buona riuscita.
Questo in sintesi è il grave danno che sta producendo il taglio alle risorse e quindi la scarsezza di mezzi.
In quale misura l’emergenza immigrazione, seguita alla rivolta popolare in Libia contro la dittatura dell’ “amico Gheddafi”, ricade sulle spalle dei poliziotti?
Purtroppo in Italia, ed in particolare negli ultimi anni, complice la spettacolarizzazione della sicurezza e della giustizia, nonché l’assenza di un’azione univoca e concreta della politica, abbiamo assistito sempre con maggiore frequenza, come qualsiasi problema di disagio sociale o di vivibilità dei territori, pur non avendo una diretta dipendenza o connessione con l’ordine e la sicurezza pubblica sono stati scaricati, impropriamente sulle spalle degli operatori di polizia.
In questa logica non fa eccezione l’emergenza immigrazione; essa purtroppo complice anche la totale assenza di una strategia politica comunitaria in grado di far muovere sinergicamente ed unitariamente i singoli Paesi della comunità, pur essendo generata da condizioni sociali e geopolitiche che nulla hanno a che fare, fatte le dovute eccezioni come il caso di scenari di guerra che investono i paesi di provenienza, l’esempio attuale è costituito dalla Libia, viene però di fatto scaricata quasi esclusivamente sulle spalle dei poliziotti. Sono essi infatti, a dispetto dei principi democratici e costituzionali della Carta Europea e del nostro Paese ad essere impegnati sul fronte dell’accoglienza, dell’ospitalità e dell’integrazione ancor prima che su quello della sicurezza e dell’ordine pubblico. Questo spaccato fa emergere con forza e chiarezza che il peso dell’immigrazione si scarica se non esclusivamente, quasi completamente sulle spalle dei poliziotti.
A proposito di riforme, come si deve considerare quella della Giustizia? Soprattutto per quanto riguarda la lotta alle mafie, alla corruzione e altre forme di malaffare. Ne viene in qualche modo intaccata la sinergia tra Polizia e magistrati?
Le riforme, perché siano efficaci e funzionali non dovrebbero mai essere parziali e dettate dall’onda dell’emotività del momento che costringono i vari governi ad intervenire. Esse per avere possibilità di successo dovrebbero essere pianificate ed attuate dopo attenta e approfondita analisi e, possibilmente, sganciate dalle dinamiche che in quel momento investono la vita del Paese. L’ho detto prima, sicurezza, giustizia e carcere, quest’ultimo anche se non citato, colgo l’occasione adesso per inserirlo nella riflessione conclusiva., costituiscono tre “vagoni” dello stesso “convoglio” che, unitariamente intesi, costituiscono il sistema complessivo di quella rete di protezione rappresentata dal sistema sicurezza, giustizia e rieducazione dei rei per il loro reinserimento nella società. Per un principio fisico, appare evidente a chiunque, che se uno dei vagoni di questo convoglio viaggia a velocità diversa dagli altri due, l’unico risultato possibile è il deragliamento del convoglio. Con questo voglio dire in sostanza che l’attuale riforma della giustizia così come presentata, a prescindere dalle polemiche che ovviamente non aiutano un lavoro proficuo, non può essere affrontata da sola e sganciata da quel contesto a cui facevo riferimento prima. Certo per i poliziotti un sistema giustizia che, anziché garantire l’effettività e l’immediatezza della pena dovesse predisporre le basi per l’annullamento dell’obbligatorietà, dell’azione penale e quindi per l’effettività della giustizia non è un motivo di incoraggiamento a continuare la propria azione. Riformare la giustizia per abbreviare i tempi della celebrazione del processo è una cosa giusta e necessaria e di cui il Paese ha bisogno. Ma fare una riforma, ispirata da questa esigenza che però nei fatti accorcia la prescrizione annullando l’obbligo dell’azione penale e della condanna di chi è colpevole per mancanza di risorse che consentano la celebrazione dei processi, costituisce un presupposto per una denegata giustizia di cui il Paese e i cittadini, ma anche i poliziotti, non hanno sicuramente bisogno.
Nel 150° dell’Unità nazionale avanza un progetto federalista che, in alcune versioni, punta a una sorta di parcellizzazione del Paese. In che modo questo può influire sull’attività e sul ruolo della Polizia? Ritiene che il progetto delle ronde, per ora su un binario morto, fosse conforme a questi progetti “secessionisti”, e possa diventarlo nuovamente?
Voglio fare innanzitutto una precisazione: il processo federalista presentato dal Governo e poi varato dal Parlamento, riguarda un concetto di federalismo fiscale. Questo terreno non può e non deve rappresentare alibi per chi nel riconoscere nel giusto modo il peso delle singole regioni in materia fiscale, crede di poter intaccare l’unità del Paese e di trasformare l’Italia da un Paese unico ad un insieme di “mini stati” quali potrebbero essere intese le Regioni che agiscono in via autonoma sul proprio territorio tenendo conto solo di alcuni, e per altro non meglio precisati, vincoli dettati dalla necessità dello stare insieme. Io credo che l’unità del Paese sia un valore assoluto, determinato non tanto da un disvalore quale potrebbe essere un obbligo di legge che tiene insieme le varie regioni, ma da una scelta convinta, culturale, politica e sociale di appartenere allo stesso Paese e in quanto tale adoperarsi, anche attraverso il principio della sussidiarietà e della solidarietà che è e deve restare valore fondante della nostra cultura ancorché principio sancito dalla nostra Costituzione. In questa ottica, ne sono dimostrazione anche gli ultimi provvedimenti varati negli ultimi tempi con i vari “pacchetti”, l’ordine e la sicurezza pubblica sono e devono restare materia di competenza statale e centrale. I punti cardini attraverso i quali l’azione centrale e statale sul terreno dell’ordine e della sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità si coniugano con le peculiarità dei singoli territori, e quindi del concetto di federalismo territoriale, sono le due autorità di pubblica sicurezza, quella politica e cioè il Prefetto e quella tecnica cioè il Questore, che sono stati individuati dal legislatore proprio nella legge di riforma della polizia varata trent’anni fa. Queste due autorità infatti rappresentano la camera di compensazione nella quale le esigenze peculiari dei singoli territori vengono analizzate e soddisfatte nell’alveo dell’azione centrale e statale che lo Stato pone in essere a salvaguardia della democrazia, dell’ordine e della sicurezza pubblica ma anche delle esigenze dei singoli cittadini o di singole porzioni di territorio.
Ecco perché queste due figure, che sono ancora straordinariamente attuali ed efficaci, vanno salvaguardate e, soprattutto per l’ambito di azione del Questore, potenziate attraverso un sistema che renda effettivamente e concretamente efficace la gestione di tutte le risorse che vi sono in campo, per ricondurle nell’alveo unitario unico dell’azione dello Stato. Sto parlando insomma di un potenziamento e rafforzamento del coordinamento di tutte le Forze di Polizia sotto la direzione unitaria dell’Autorità Tecnica di Pubblica Sicurezza che è e rimane l’unica a rispondere dell’operato di tutti i soggetti in campo. Ecco perché, nel ricordare la battaglia “integralista” che il SIULP ha portato avanti insieme alla CISL, le ronde non solo non rappresentano una risposta alle esigenze del territorio e dei cittadini ma sono la negazione, perché impreparati e di parte, al loro diritto di vedersi salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica. In un Paese democratico e civile qual è l’Italia, i volontari dovrebbero essere impegnati esclusivamente nel controllo delle attività sociali quali, ad esempio, la gestione dei parchi, il presidio degli incroci e dei passaggi pedonali in prossimità delle scuole, o l’ausilio alle persone più deboli nella gestione quotidiana della loro vita e nella fruizione dei diritti di cittadinanza che questa condizione limita.
Concludendo, come vede i problemi dell’immediato futuro per il nostro Paese? In uno dei suoi recenti editoriali lei auspicava il “ripristino del primato della politica sugli interessi non sempre nobili dei poteri economici”, il “primato della legalità sull’illegalità”, e, ricordando Aldo Moro, il “buon esempio”. Stiamo perdendo la memoria dei valori fondamentali?
La globalizzazione, che ci è stata presentata solo come una grande opportunità, ha insito nel suo processo anche aspetti negativi ai quali nessuno aveva fatto riferimento e sui quali nessuno ci aveva messo in guardia. Se a questo aggiungiamo la velocità del cambiamento stesso che questo processo porta con sé, che non è ininfluente nel determinare le ricadute negative sulle comunità interessate, è evidente che il sopravvento dei poteri economico-finanziari, e non quelli produttivi che sono invece un valore nella ricostruzione del tessuto economico sociale e politico, che hanno relegato la politica ad un ruolo subalterno se non addirittura a quello di “comparsa” sul palcoscenico della nostra vita quotidiana, è facile comprendere che l’unico obiettivo che questi poteri perseguono è quello del massimo profitto al più basso costo possibile.
La politica, quella nobile, alla quale io mi riferivo quando ho affermato che è necessario il ripristino del suo primato, è la pratica quotidiana di compensazione e bilanciamento di tutti gli interessi in campo in società evolute e complesse quali sono le nostre. Perché solo la politica è in grado di saper coniugare la garanzia di un giusto profitto per il potere economico ma anche il rispetto del diritto al lavoro, del diritto all’istruzione, del diritto ad una sanità pubblica a cui tutti possono accedere e trovare i servizi di cui hanno bisogno e, non per ultimo del diritto ad una sicurezza generale, e non personale che sappia coniugare il binomio inscindibile che ogni democrazia non può assolutamente perdere di vista.
Sicurezza e libertà, perché solo garantendo la sicurezza nella piena libertà di ogni individuo si creano le condizioni per poter affermare senza remore che viviamo in una società democratica avanzata ma anche sicura. Ecco perché l’autorevolezza delle istituzioni, a prescindere dalle maggioranze partitiche che le esprimono, devono restare integre per rappresentare quel faro a cui chiunque si può rivolgere sapendo di trovare una risposta alle proprie esigenze e l’indicazione a percorrere la strada giusta. Questo era il mio riferimento al recupero del buon esempio cui ci richiamava l’Onorevole Aldo Moro. Perché, per chiudere, come diceva Benjamin Franklin: “Una società che rinuncia ad una parte della propria libertà per garantirsi la sicurezza, non merita né l’una né l’altra”.