Legittima difesa: non viene meno il requisito della proporzionalità tra offesa e difesa anche dopo la riforma dell’art. 52 c.p. – Corte Cass. nr. 32282 del 4.07.2006

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Legittima difesa: non viene meno il requisito della proporzionalità tra offesa e difesa anche dopo la riforma dell’art. 52 c.p..

La suprema Corte, in tema di legittima difesa, ha, infatti, sostenuto che la nuova formulazione dell’art. 52 c.p. non fa venir meno il succitato requisito; le espressioni normative «necessità di difendere» e «sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa», di cui all’art. 52 c.p., vanno intese, continua la Cassazione, nel senso che la reazione deve essere, in quella circostanza, l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa egualmente idonea alla tutela del diritto proprio o altrui. (Corte Cass., sez. IV penale, nr. 32282 del 4.07.2006 – dep. il 29.09.2006)

 

Corte Cass., sez. IV penale, nr. 32282 del 4.07.2006 – dep. il 29.09.2006

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 4 luglio 2006 – 29 settembre 2006, n. 32282

A. D. veniva tratto al giudizio del Tribunale di Napoli – Sezione distaccata di Pozzuoli – per rispondere del reato di cui agli artt. 589, 52, 59 c.p.: gli si addebitava di aver cagionato per colpa la morte di M. C., che la sera dell’8 gennaio 1992, con altre due persone rimaste non identificate, si era introdotto nella sua abitazione, previa effrazione di una finestra, eccedendo l’imputato i limiti di legge per la difesa del suo diritto ed esplodendo un colpo di pistola dalla finestra dell’abitazione contro la fuggitiva vittima che ne rimaneva attinta e decedeva per le lesioni riportate.

Il primo giudice assolveva l’imputato dalla imputazione contestatagli, perché il fatto non sussiste. Riteneva accertato che in quella circostanza le tre persone si erano introdotte nell’abitazione dell’imputato per impossessarsi di una cospicua somma di denaro; che gli occupanti dell’abitazione erano stati destati dai rumori notturni, avvedendosi della presenza di estranei in casa; che A. D. aveva prelevato una pistola, legittimamente detenuta, inseguendo i tre malfattori; che, nella concitazione del momento, «il trambusto era massimo» e «nel buio si vedevano ombre muoversi»; che andava considerata «la particolare situazione psicologica in cui versava la famiglia D., già vittima di furti (e) … oggetto di richieste estorsive»; che «non può pretendersi che il D. conosca la giurisprudenza specifica» sulla esimente della legittima difesa, dovendosi «affermare che valga il principio ignorantia legis excusat»; che nel caso specifico «il pericolo era attuale» e «la probabilità di un evento dannoso era, più esattamente, una certezza»; che «la situazione era tale che si era venuta, a creare, per il D., una situazione di pericolo incombente od una situazione che comunque faceva sorgere nel D. la ragionevole opinione di trovarsi in siffatta posizione pericolosa».

1.2 Sul gravame del Procuratore Generale della Repubblica, la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 13 novembre 2003, in riforma della sentenza impugnata, riconosceva la penale responsabilità dell’imputato in ordine all’addebito contestatogli e lo condannava a pena ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore della costituita parte civile.

Rilevavano i giudici dell’appello – richiamato il «consolidato orientamento giurisprudenziale» in subiecta materia – che «il D. esplose il mortale colpo di pistola contro il C. dall’alto di una delle finestre della sua abitazione quando costui aveva già posto termine al suo tentativo di furto, aveva ormai abbandonato l’abitazione dell’imputato ed aveva raggiunto la strada»; che, quanto alla «ragionevole persuasione di trovarsi nella necessità di difendere la propria persona contro il pericolo di offesa da parte del C.», doveva considerarsi che il possesso di un’arma da parte di uno dei ladri era stato affermato solo dall’imputato e da uno dei testi, S. D., «non essendo stata tale circostanza riferita anche dagli altri testi», e che, «ad ogni modo, non era certamente C. M. il giovane in possesso della pistola giacché nessuna arma gli fu trovata indosso dopo l’uccisione o comunque fu rinvenuta accanto al suo cadavere»; che «il D. non poteva temere alcun pericolo di essere a sua volta sparato, né peraltro l’erronea convinzione contraria poteva essere ingenerata o giustificata da alcun fatto concreto»; che, quanto all’affermazione dell’imputato «che il C. si fosse girato facendo il gesto di chi si accingesse ad impugnare un’arma…, nessuna risultanza processuale conforta il suo racconto sul punto. Anzi le risultanze contrastano gravemente la sua affermazione, ove si consideri che il C. fu attinto alle spalle mentre si dava alla fuga…»; che, «per quanto concerne la frase “spara, spara”, pronunciata da qualcuno che si trovava all’esterno dell’abitazione secondo quanto hanno riferito i testi escussi, non è consentito ritenere con assoluta certezza, come fa invece il primo giudice, che essa contenesse necessariamente un’esortazione a sparare», e «in realtà si tratta di una frase ambigua, che avrebbe potuto esprimere anche un avvertimento dato da uno dei due fuggitivi all’altro in ordine alla circostanza che il D., portatosi ad una finestra della sua abitazione, era in possesso di una pistola e che da un momento all’altro avrebbe potuto sparare, come in realtà poi fece veramente».

2. Avverso tale sentenza ha personalmente proposto ricorso l’imputato, denunciando vizi di violazione di legge e di motivazione.

Deduce:

a) che all’udienza di primo grado del 23 gennaio 1997 era stato prodotto un atto contenente «l’indicazione delle procure speciali nonché elezione di domicilio presso lo studio del difensore…», e certificazione medica attestante l’impedimento dell’imputato a comparire; il giudice aveva disposto il rinvio del procedimento a nuova udienza, ma la relativa notifica del provvedimento «non avveniva al domicilio eletto bensì a quello reale e non a mani proprie»; che, quindi, illegittimamente egli era stato dichiarato contumace, da tanto derivando «la nullità assoluta del giudizio di primo grado e di tutti gli atti successivi…»;

b) che, «in ogni caso», la sentenza impugnata sarebbe affetta da «illogicità e carenza di motivazione, travisamento del fatto». In particolare, «dalle foto dei luoghi allegate agli atti appare evidente che la finestra è posta ad un primo piano basso e che il C. si trovava nel cortile sottostante a pochi metri all’atto dell’esplosione del colpo»; quanto al possesso di una pistola da parte della vittima, avrebbe dovuto considerarsi che «i rapinatori erano ben tre e che pertanto è più che probabile che uno dei complici del C., fuggendo, abbia recuperato l’arma caduta al C.»; illegittimamente non era stata ritenuta attendibile la tesi difensiva dell’imputato, avendo anche la espletata perizia concluso «per la piena compatibilità del movimento di torsione del busto descritto dal D. con l’andamento del tramite lesivo»; quanto alla frase «spara, spara», «tutti i testi hanno riferito la frase come una esortazione, non come un avvertimento»;

c) che illegittimamente era stato negato il riconoscimento delle attenuanti generiche, essendosi al riguardo utilizzate «mere disquisizioni dialettiche per coprire la reale esigenza della Corte, ovvero quella di non dichiarare la prescrizione del reato», ed omettendosi di considerare che «il precedente giudiziario, afferente a reato contro la persona, risaliva al 14/8/1960…», e, in sostanza, il contesto in cui era maturato il fatto di reato;

d) che illegittimamente era stato negato il beneficio della sospensione condizionale della pena: egli era gravato dal citato precedente del 1960 e da una successiva sentenza di condanna per fatti del 1967, per la quale «non ha fruito della sospensione bensì del condono in quanto all’epoca la seconda sospensione non era concepibile», ed «ottenne tuttavia una seconda sospensione per fatti depenalizzati», sicché – conclude il ricorrente – egli «poteva fruire della sospensione della pena per la presente vicenda».

3. Le proposte doglianze non si palesano condivisibili.

Quanto, invero, al primo motivo di ricorso, hanno al riguardo chiarito le Sezioni Unite di questa Suprema Corte che, in tema di notificazione della citazione all’imputato, la nullità assoluta ed insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, pur essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p. (Cass., Sez. Un., 27/10/2004, n. 119/2005, ric. Palumbo). In particolare, la notificazione all’imputato effettuata presso il domicilio reale a mani di persona convivente, anziché presso il domicilio eletto, non integra necessariamente una ipotesi di «omissione» della notificazione ex art. 179 c.p.p., ma dà luogo, di regola, ad una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178, lett. c), c.p.p., soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184.1, alle sanatorie generali di cui all’art. 183 e alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 stesso codice, sempre che non appaia in astratto o risulti in concreto inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario, nel qual caso integra invece la nullità assoluta ed insanabile di cui all’art. 179.1 c.p.p., rilevabile dal giudice di ufficio in ogni stato e grado del processo (ibid.). E l’imputato che intenda eccepire la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi a denunciare la inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non aver avuto cognizione dell’atto e indicare gli specifici elementi che consentano l’esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice (ibid.).

Nella specie, non risulta, né lo deduce il ricorrente, che sia stata sollevata in precedenza tale eccezione, proposta solo in questa sede di legittimità; né comprova il ricorrente medesimo che la notifica eseguita nel domicilio reale a mani di persona convivente non abbia potuto comportare e comportato la sua cognizione del contenuto dell’atto.

Quanto al secondo profilo di censura, in punto di responsabilità, hanno, come di già anticipato, accertato i giudici del merito – e tale accertamento in fatto è insindacabile in sede di legittimità – che l’imputato ebbe ad esplodere il colpo d’arma da fuoco «dall’alto di una delle finestre della sua abitazione», quando la vittima «aveva già posto termine al suo tentativo di furto, aveva ormai abbandonato l’abitazione ed aveva già raggiunto la strada», venendo «il C…. attinto alle spalle mentre si dava alla fuga». Ciò posto, ha più volte chiarito questa Suprema Corte che i presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da una aggressione ingiusta e da una reazione legittima; la prima deve concretarsi in un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocerebbe nella lesione del diritto; la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo ed alla proporzione tra difesa ed offesa (ex ceteris, Cass., Sez. IV, n. 16908/2004; id., Sez. I, n. 9695/1999; id., Sez. I, n. 6811/1994); e le espressioni normative «necessità di difendere» e «sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa», di cui all’art. 52 c.p., vanno intese nel senso che la reazione deve essere, in quella circostanza, l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa egualmente idonea alla tutela del diritto proprio o altrui (tra altre, Cass., Sez. I, n. 2554/1996; id., Sez. IV, n. 9256). La condotta dell’aggressore (valutata ex ante, al momento in cui il ricorrente esplose il colpo di pistola), nel caso di specie, alla stregua delle esplicitate circostanze fattuali, si era già esaurita nella sua aggressività e potenzialità offensiva, la vittima si era data alla fuga (venne attinta dal colpo di pistola alle spalle «mentre si dava alla fuga»), nessun pericolo attuale poteva più sussistere in riferimento alla integrità fisica del ricorrente e degli altri abitanti dell’immobile o del suo diritto patrimoniale. D’altra parte, quanto alla espressione «spara, spara» (della quale i giudici del merito hanno rilevato la ambiguità), essi hanno dato atto che nessuna arma venne rinvenuta riconducibile all’aggressore, e la affermazione gravatoria secondo cui «è più che probabile che uno dei complici del C., fuggendo, abbia recuperato l’arma caduta al C.», è meramente assertiva, non supportata da alcun altro elemento di riscontro che dia contezza di comportamenti o movimenti dei correi in tal senso inducenti; rimane, al postutto, la circostanza che il colpo di arma da fuoco venne esploso dal ricorrente «dall’alto di una delle finestre della sua abitazione», quando la vittima «aveva ormai abbandonato l’abitazione dell’imputato ed aveva raggiunto la strada», sicché anche il paventato pericolo di esplosione di colpi di arma da fuoco da parte della vittima, da quella ormai raggiunta posizione, poteva agevolmente essere affrancato dall’agevole abbandono, da parte del ricorrente, di quella sua postazione alla finestra.

Le conclusioni al riguardo logicamente assunte dalla sentenza impugnata non sono inficiate o caducate dalla modifica normativa intervenuta con l’art. 1 della L. n. 59/2006, che ha introdotto un secondo e terzo comma all’art. 52 c.p., «nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma». Anche alla stregua di tale novellato disposto legislativo, difatti, l’uso di un’arma legittimamente detenuta, quanto al rapporto di proporzione di cui al primo comma, concretizza l’esimente in discorso quando è volto a «difendere la propria o altrui incolumità», ovvero «i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione». Dovendosi siffatta valutazione pur sempre operare in relazione alla situazione concreta sussistente nel momento in cui si faccia uso dell’arma, nella specie, per quanto esplicitato dai giudici del merito e testé richiamato, nel momento in cui l’imputato fece uso di quell’anna, colpendo il fuggitivo (che aveva già guadagnato la strada) alle spalle, più non sussisteva la necessità di «difendere la propria o altrui incolumità», e, quanto ai beni, più non sussisteva un «pericolo di aggressione» e la vittima, dandosi alla fuga, aveva in sostanza desistito dal suo iniziale intento aggressivo.

Quanto al terzo profilo di censura, i giudici dell’appello hanno negato il riconoscimento delle attenuanti generiche rilevando che la pena irrogata era pari al minimo edittale e che non si apprezzavano «situazioni… che presentino connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare considerazione ai fini della quantificazione della pena…, ove si consideri che il D., una volta che il C. si era dato alla fuga, non aveva alcuna necessità di affacciarsi appositamente alla finestra della casa e di portare con sé la pistola con cui uccise il giovane», ulteriormente rilevando che né la personalità del colpevole giustifica la concessione delle generiche, «ove si tenga conto che già in passato il D. si è reso autore di reati di violenza su persone». Come si vede, dunque, i giudici del merito sono pervenuti all’espresso divisamento complessivamente valutando le connotazioni fattuali del caso, la gravità dello stesso ed il grado della colpa, con ciò congruamente assolvendo all’obbligo motivazionale loro imposto, nel delibativo apprezzamento che a tale riguardo è dalla legge riservato al giudice del merito. E, premesso che, come risulta dal certificato penale in atti, l’imputato ebbe, in effetti, a subire una sentenza di condanna, in data 19 ottobre 1961 (per fatto del 14 agosto 1960), per lesioni personali volontarie, non illegittimamente i giudici del merito hanno valutato anche tale precedente, ancorché risalente nel tempo, ai fini del complessivo apprezzamento della personalità dell’imputato, in uno alle altre considerazioni argomentative svolte.

Quanto, infine, al quarto ed ultimo motivo di doglianza, per come risulta dal certificato penale in atti, l’imputato ebbe a beneficiare una prima volta della sospensione condizionale della pena in relazione alla sentenza in data 19 ottobre 1961 del Tribunale di Napoli, che lo aveva condannato alla pena di mesi due di reclusione per reato di lesioni personali volontarie. Successivamente, con sentenza del 10 ottobre 1973 dello stesso Tribunale di Napoli, ebbe a riportare altra condanna a mesi sei di reclusione per delitto di cui agli artt. 491, 62, n. 4, c.p., ed in riferimento a tale reato non venne reiterato tale beneficio, dichiarandosi condonata la relativa pena ai sensi del D.P.R. n. 283/1970. Ora, pur non dovendosi tener conto della condanna e dell’ulteriore beneficio concesso con sentenza del Pretore di Pozzuoli del 12 giugno 1974 per reato di cui all’art. 32 L. n. 990/1969 (poi depenalizzato) e di altre condanne per lo stesso titolo di reato e per emissione di assegni a vuoto (ex ceteris, Cass., Sez. V, n. 44281/2005; id. Sez. V, n. 28714; id., Sez. V, n. 17660/2004; id., Sez. IV, n. 21730/2004; ecc.; cfr. anche Cass., Sez. Un., n. 4687/2005), quanto ai limiti formali della reiterabilità del beneficio rimane che questo non è reiterabile allorché, come nella specie, dopo una prima concessione dello stesso l’imputato riporti altra condanna a pena detentiva per delitto (ancorché senza concessione del beneficio), intermedia rispetto ad altra successiva per la quale si richieda la reiterazione del beneficio medesimo (Cass., Sez. VI, n. 4090/1998; id., Sez. VI, n. 8167/1996; id., Sez. V, n. 1442/1995; id., Sez. IV, n. 8833/1994; id., Sez. Un., n. 1718/1984), non rilevando a tali effetti che la pena della sentenza intermedia possa essere stata condonata (Cass., Sez. I, n. 2057/1997; id., Sez. Un., n. 23/1995). Non senza, peraltro, considerare, sotto il profilo questa volta prognostico e di merito, che, al riguardo, anche le precedenti condanne per reati poi depenalizzati possono legittimamente essere valutate dal giudice (cfr. Sez. V, n. 34682/2005; id., Sez. V, n. 17660/2004).

4. Il ricorso va, dunque, rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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