Le offese su Facebook non possono trovare giustificazione nella polemica politica

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Per la Cassazione, il contrasto politico non giustifica le offese su Facebook, la cui valenza denigratoria integra il reato di diffamazione. Il principio è affermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 18057/2023 del 2 maggio 2023 che ha definito con respingimento il ricorso di una persona già condannata in appello per diffamazione.

Il ricorrente deduceva che le frasi a lui attribuite non avevano alcuna valenza offensiva né contenuto violento, costituendo espressioni dialettali usuali tra persone in confidenza che da tempo si confrontavano con scontri verbali per ragioni politiche.

Per il Palazzaccio, tuttavia, le affermazioni dell’imputato che apostrofava la persona offesa, con parole come “ignorante … cretino … sciacqua lattughe”, avevano invece, come correttamente ritenuto dalla corte di merito, una valenza denigratoria, anche in considerazione della circostanza che l’uomo non perdeva mai occasione di intervenire per commentare qualsiasi esternazione anche non inerente ad argomenti strettamente politici, apparendo gli interventi del tutto pretestuosi ed evidentemente finalizzati ad insultare pubblicamente il soggetto che non conosceva neanche personalmente, tanto è vero che la persona offesa lo aveva più volte diffidato dal persistere nelle condotte.

Per i giudici di piazza Cavour, la decisione di condanna inflitta nei gradi di merito appare “del tutto coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo cui il limite della continenza nel diritto di critica è superato in caso di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (cfr. Cass. n. 320/2021).

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Nel caso in esame, quindi, “il contesto di contrasto politico appare del tutto genericamente evocato, e, in molti casi, del tutto escluso dalla sentenza impugnata, apparendo le frasi e gli epiteti utilizzati non inquadrabili neanche in un contesto di contrapposizione politica, né di dileggio personale tra soggetti legati da vincoli di conoscenza, con conseguente piena integrazione della condotta di diffamazione”.

Va, infatti, rilevato, conclude la S.C. dichiarando inammissibile il ricorso, che “benché determinati epiteti, quali quelli utilizzati dall’imputato, siano entrati nel linguaggio comune o rappresentino modalità verbali colloquiali, nondimeno la loro valenza offensiva non è stata vanificata dall’uso, ma semplicemente attenuata in riferimento, tuttavia, a contesti specifici – quali quelli di tipo colloquiale, personale, tra soggetti legati da vincoli di amicizia e simili – dovendo ritenersi come la valenza denigratoria insita nel lemma lessicale si riespanda totalmente allorquando l’uso risulti del tutto gratuito”, come verificatosi nel caso di specie.

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