Registrazioni effettuate senza il consenso degli interlocutori

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La registrazione di una conversazione tra colleghi, effettuata senza il consenso degli interessati è consentita solo se risulta necessaria per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio che ricomprende tutte le attività dirette ad acquisire prove, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso.

Il principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, in due ordinanze, pronunciate sul tema dell’uso delle registrazioni tra colleghi, a fini difensivi.

Con l’ordinanza n. 20487 del 21 luglio 2025, la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da un lavoratore avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva confermato la legittimità di una sanzione disciplinare conservativa (sospensione dal lavoro), irrogata per aver egli registrato clandestinamente una conversazione tra il direttore del personale e una collega, all’interno dei locali aziendali, in assenza di un procedimento giudiziario pendente e della prospettiva di una sua instaurazione.

Il ricorrente aveva sostenuto che la registrazione era funzionale all’esercizio del diritto di difesa. Tuttavia, i giudici di merito hanno accertato che all’epoca dei fatti non vi era alcuna controversia in corso né una sua imminente instaurazione, e che la registrazione non presentava alcuna pertinenza con le condotte disciplinari oggetto del successivo giudizio.

Secondo i giudici che hanno richiamato anche alcuni precedenti giurisprudenziali (Cass. nn. 3033 e 3034 del 2011) il diritto di difesa può giustificare la registrazione di colloqui anche in fase stragiudiziale solo se esiste un nesso diretto, concreto e attuale con la necessità di precostituire una prova difensiva mentre, in mancanza di tale requisito, la registrazione occulta costituisce una violazione degli obblighi contrattuali di correttezza e fedeltà, legittimando la sanzione disciplinare.

La stessa Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5844 del 5 marzo 2025, ha invece accolto il ricorso presentato da una dottoressa contro la sanzione disciplinare comminatagli per avere la stessa registrato, senza autorizzazione, una conversazione privata avvenuta sul luogo di lavoro.

L’intento della registrazione era quello di utilizzarne il contenuto come prova contro il direttore dell’unità sanitaria, che la professionista aveva denunciato per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio ai suoi danni.

La registrazione, effettuata senza consenso, era stata considerata deontologicamente scorretta in quanto violava la riservatezza del collega, ma secondo la ricorrente la stessa attività era necessaria per le indagini difensive o per esercitare il diritto di difesa in giudizio.

La Suprema Corte ha il ricorso rilevando che l’articolo 24 del Codice della privacy prevede espressamente una scriminante in caso di esercizio del diritto di difesa, ancora valida anche nel contesto del Decreto legislativo n. 101/2018, che ha adeguato la normativa nazionale al GDPR (General data protection regulation) e che l’utilizzo della registrazione era finalizzato al perseguimento della finalità difensiva e per il tempo strettamente necessario.

I Giudici di piazza Cavour hanno precisato che la possibilità di raccogliere elementi probatori a tutela dei propri diritti, anche prima della citazione in giudizio, rientra nel perimetro del diritto costituzionalmente garantito dall’articolo 24 della Costituzione richiamando il principio enunciato dalla propria precedente giurisprudenza (sentenza n. 27424/2014), secondo cui “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso; non a caso, nel codice di procedura penale, il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’articolo 24 Costituzione, sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento”.

 

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