Inviare messaggi a raffica su WhatsApp configura il reato di molestia

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Il Tribunale di Torre Annunziata, con la con la sentenza numero 385 del 3 marzo 2025, ha qualificato l’invio massiccio di messaggi come reato di molestie, secondo l’art. 660 del c.p.. Il ragionamento del giudice si basa sul concetto di petulanza: non conta solo ciò che si scrive o si registra, ma anche come e quanto frequentemente si inviano le comunicazioni. I 70 vocali, inviati in tempi ristretti, sono stati considerati un atto deliberato per disturbare la serenità della vittima, trasformando un dissidio familiare in un illecito penale. Ogni notifica arrivata sul telefono della vittima diventava un ulteriore elemento di pressione psicologica, sufficiente a configurare la molestia.

Non c’è bisogno che i messaggi contengano minacce esplicite o offese per costituire reato. La semplice insistenza, se prolungata nel tempo e percepita come opprimente, può essere sufficiente. La legge guarda quindi anche alla modalità di comunicazione e al suo impatto sulla vittima, considerando l’aggressione digitale alla stregua di comportamenti persecutori nel mondo reale.

La rapidità e la quantità dei messaggi possono far crescere il conflitto, trasformando una semplice lite in un episodio di molestie perseguibile per legge.

Le conseguenze legali e il messaggio della sentenza

La decisione del Tribunale di Torre Annunziata manda un messaggio chiaro: WhatsApp e le piattaforme di messaggistica non sono spazi senza regole. Non conta solo il contenuto dei messaggi, ma anche la quantità e la frequenza, che possono avere rilevanza penale. Per chi subisce molestie digitali, la denuncia diventa uno strumento fondamentale per tutelare la propria tranquillità.

In pratica, la sentenza ricorda che ogni azione digitale ha un peso e che il rispetto dei confini altrui è imprescindibile anche nelle comunicazioni online. Chi subisce molestie ha diritto a protezione, mentre chi eccede con la petulanza e l’insistenza può trovarsi ad affrontare conseguenze penali importanti.

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