CAPACI: LA MEMORIA CHE ALIMENTA LA NOSTRA AZIONE QUOTIDIANA

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Ognuno di noi ricorda dov’era quel giorno. Ognuno ricorda il preciso istante in cui ci venne comunicato che a Palermo era scoppiata un bomba. Nel giro di pochi istanti ci rendemmo tutti conto che realmente la mafia aveva attentato la vita di Giovanni Falcone. Nel giro di pochi minuti ci rendemmo conto che erano morti quasi tutti. Mancavano pochi minuti alle 18 quando all’altezza di Capaci 500 kg di tritolo spezzarono l’esistenza di un grandissimo italiano. Con lui morirono la moglie Francesca Morvillo e tre colleghi della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il tempo si fermò non appena ci comunicarono che Falcone era morto. Piombammo tutti in una realtà parallela, ovattata, fatta di silenzi, disperazione, rabbia: “Ero a Modena di servizio – ricorda Felice Romano – e un collega della sala operativa mi disse che a Palermo c’era stato un gravissimo attentato e che probabilmente era morto il giudice Falcone. Rimasi pietrificato. La mente tornò subito a qualche anno prima, a quando facevo servizio a Palermo. All’epoca ebbi l’onore di scortarlo e di conoscerlo da vicino. Come pensai subito ad Antonio Montinaro. Avevo conosciuto anche lui, un collega estroverso, allegro, sempre pronto alla battuta”. Tutti ricordiamo quel momento, quell’istante in cui ci dissero che Falcone era morto. E nella mente di chi c’era, o che comunque c’era stato, i ricordi iniziarono subito ad affollarsi: “Ero stato in servizio a Palermo nel 1986 e nel 1987 in occasione del maxiprocesso – continua il Segretario Generale del Siulp – e avevo fatto parte del reparto scorte in servizio con tutti quei magistrati, Falcone in primis, che quel maxiprocesso istituirono. Ricordo la grande preoccupazione di tutti i colleghi. Molti avevano timore anche ad uscire per le strade di Palermo e rimanevano in caserma. La città era militarizzata come mai nella sua storia e si viveva in un clima di grande tensione. Sembrava un grande palcoscenico Palermo. Ricordo quando andammo a prendere la prima volta Falcone: provai una grandissima emozione ed un enorme senso di responsabilità. Per tutto il tempo che lo scortai è sempre stato una persona molto taciturna e silenziosa”. Il sentimento di ogni singolo poliziotto, quel tardo pomeriggio del 23 maggio del 1992, fu di enorme rabbia. E di disfatta. Falcone era il palatino di un Italia vera, onesta, determinata. Con lui ci sentivamo tutti più motivati. Con lui, sembrò sparire di colpo anche il più piccolo sentimento di speranza: “Piombammo tutti nel terrore che lo Stato non ce la potesse più fare. Che avevamo perso. Falcone era l’emblema dello Stato e con lui se ne stava andando la speranza di milioni di italiani ed in particolare di tutte le donne e gli uomini in divisa. Ricordo che come Siulp ci recammo subito a Capaci, con l’allora segreteria nazionale. Ci ritrovammo di fronte a quell’immenso cratere. Era spaventoso. Provai rabbia, commozione e ancora tanta rabbia. Falcone e tanti colleghi erano lì. Le loro esistenze dilaniate dalla tracotanza e dalla ferocia della mafia. Avevo la reale sensazione di una disfatta: in quel momento l’Italia subiva un colpo terrificante e io stesso dubitati sulle capacità di reazione dinanzi ad una tale strage. Poi…”. Poi accadde uno dei primi miracoli che le stragi del 1992 crearono come controreazione: i giovani. Soprattutto i giovani reagirono ad una tale orrenda realtà: “Ricordo le navi piene di ragazzi che Don Ciotti convogliò su Palermo per manifestare con Libera contro la mafia. Ci fu una reazione pazzesca. Mi resi conto che quelle stragi avevano sortito un effetto incredibile nella coscienza di tutti gli italiani – continua Romano – e che ce l’avremmo fatta a reagire. Fu allora che tanti giovani decisero di indossare l’uniforme, ragazze e ragazzi che rappresentavano il volto pulito dell’Italia che non voleva piegarsi alla tracotanza della ferocia mafiosa. Il male non poteva e non può vincere e quel cratere, impregnato del sangue di questi eroi, fece germogliare la pianta della riscossa, segnò un nuovo punto di partenza. Segnò la fine della cupola mafiosa”. Ripensiamo tutti alla strage di Capaci. A quel periodo che segnò la nostra esistenza. A quella rabbia per aver perso un uomo così grande, e per aver perso colleghi così straordinari: “Quella rabbia torna a galla a volte – conclude Romano – motivata dal fatto che questa nostra Italia ha bisogno di eroi da piangere, cui dare delle medaglie soprattutto quando non ci sono più. Ma l’Italia è piena di eroi. Gente viva, che in silenzio opera e si adopera per migliorare la nostra società ogni giorno. Persone che nell’ordinario, compiono ogni giorno cose straordinarie. Sono loro che ci hanno regalato questa democrazia oggi invidiata e copiata in tutto il mondo”. Trentadue anni fa l’Italia perdeva uomini valorosi, persone di grandissimo spessore. Esempi che tutti noi tentiamo di seguire ogni giorno nella lotta contro ogni violenza e forma di criminalità. Per loro abbiamo pianto, pregato, lottato. Oggi, come allora, consapevoli che il male non potrà mai vincere sul bene.

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