Commette reato di violenza privata Il PM che opera con modalità intimidatorie

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Il Pubblico Ministero che opera con modalità intimidatorie e violenze verbali commette il reato di violenza privata

Il principio è stato enunciato dalla Cassazione penale con la sentenza n. 20365/2023.

La vicenda di fatto ha visto due pubblici ministeri tentare di costringere, in sede di sommarie informazioni testimoniali, i vertici di una società, operante nel settore della commercializzazione di apparecchiature elettroniche per la rilevazione di infrazioni al codice della strada, ad accusare se stessi e altri di rapporti illeciti con il comandante della polizia municipale in relazione ad appalti per la fornitura delle suddette apparecchiature.

A conclusione della fase di merito gli imputati sono ricorsi in cassazione assumendo l’irrilevanza penale delle condotte in quanto poste in essere nell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p., ovvero perché prive di reale portata offensiva, dovendosi valutare alla stregua di un “bluff tattico” o di uno “stress test”, funzionale a ottenere la verità.

Nei giudizi di merito era emerso inconfutabilmente che i PM avessero fatto ricorso a modalità intimidatorie e a violenze verbali nei confronti di persone che, qualunque fosse stata la loro condizione processuale al momento della loro escussione (semplici persone informate sui fatti, persone offese dal reato di concussione o soggetti indagabili per il reato di corruzione), in nessun caso essi avrebbero potuto essere giuridicamente costretti a fornire delle risposte corrispondenti ai desiderata degli organi inquirenti, con la prospettazione della carcerazione immediata, come conseguenza inevitabile del loro rifiuto di collaborare, e del sequestro penale della società da loro gestita ad opera degli stessi pubblici ministeri. Ciò, in quanto, in caso di mendacio o di reticenza, il magistrato può soltanto ammonire la persona informata sui fatti in ordine alle possibili conseguenze penali della condotta, ma non può rivolgere all’interlocutore espressioni di contenuto minaccioso al fine di indurlo a rispondere.

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Tali conclusioni sono state condivise dalla Corte di cassazione, che ha respinto il ricorso dei PM e precisato che il delitto di violenza privata è integrato quando la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà del soggetto passivo, avuto riguardo alle condizioni ambientali in cui il fatto si svolge.

Pertanto, a fronte del sospetto di falsità o di reticenza delle persone escusse ai sensi dell’art. 362 c.p.p., non è possibile rappresentare, per vincerne le resistenze, la detenzione in carcere come conseguenza immediata e inevitabile, rimessa alla volontà degli stessi pubblici ministeri, del rifiuto di fornire le risposte desiderate alle loro domande.

Il ruolo di garante della legalità nella fase procedimentale, connesso alla funzione del PM impone solo di ammonire le persone assunte a sommarie informazioni sulle “responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti” (ex art. 371-bis c.p.), non già prospettare un arresto, che non è previsto dalla legge per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle.

L’azione degli imputati, tenuto conto delle condizioni ambientali in cui il fatto si è svolto, è stata, pertanto, considerata oggettivamente idonea a incutere timore nelle persone offese e a suscitare in queste ultime la preoccupazione di subire effettivamente il danno minacciato dal momento che, trattandosi di soggetti estranei al mondo della giustizia penale, non erano dotate delle competenze che avrebbero loro consentito di avere contezza della contrarietà alla legge processuale penale del comportamento dei pubblici ministeri.

Impossibile, infine, invocare la scriminante dell’adempimento del dovere, considerato che tale esimente non può essere invocata quando sia stato commesso un reato sulla base di una condotta posta in essere proprio in violazione delle norme (processuali) fondanti il dovere giuridico che si assume dotato di efficacia scriminante.

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