Differimento del pagamento del Trattamento di Fine Servizio e principio costituzionale della giusta retribuzione
La scorsa settimana abbiamo dato notizia della Sentenza con cui la Corte Costituzionale ha ritenuto la illegittimità del ritardato pagamento ai dipendenti pubblici del TFS (Trattamento di Fine Servizio), per contrasto con il principio costituzionale della giusta retribuzione che «si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione».
Avevamo anche anticipato come, tuttavia, occorresse attendere la pubblicazione della sentenza per effettuare considerazioni in ordine a effetti e conseguenze della decisione.
La Sentenza che interessa è la n.130/2023 del 19 giugno 2023 – Depositata e Pubblicata in G. U. il 23 giugno 2023. Le norme impugnate sono l’articolo 3, c. 2°, del decreto-legge 28/03/1997, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 28/05/1997, n. 140, e l’articolo 12, c. 7°, del decreto-legge 31/05/2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 30/07/2010, n. 122.
La rimessione, come già anticipato, è stata effettuata dal TAR Lazio sulla base di un ricorso proposto da un dirigente della Polizia di Stato cessato dal servizio per raggiunti limiti di età che ha chiesto il pagamento del trattamento di fine servizio senza il differimento e la rateizzazione previsti dalle disposizioni censurate.
Dalle motivazioni della sentenza, si evidenzia come la Corte, dopo un’attenta ricostruzione del quadro normativo, giunga alla conclusione della inammissibilità delle questioni proposte.
Alla declaratoria di inammissibilità, segue, tuttavia, un articolato ragionamento che partendo dalla evoluzione normativa, giunge ad affermare la natura retributiva delle prestazioni in esame e la loro ricomprensione nell’ambito applicativo dell’art. 36 della Costituzione che prevede il principio della garanzia della giusta retribuzione che «si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione» (sentenza n. 159 del 2019).
Tuttavia, soggiunge la Corte, “”occorre farsi carico della considerazione che il trattamento di fine servizio costituisce un rilevante aggregato della spesa di parte corrente e, per tale ragione, incide significativamente sull’equilibrio del bilancio statale (sentenza n. 159 del 2019). Non è da escludersi, pertanto, in assoluto che, in situazioni di grave difficoltà finanziaria, il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio. Tuttavia, un siffatto intervento è, anzitutto, vincolato al rispetto del criterio della ragionevolezza della misura prescelta e della sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito”.
“Un ulteriore limite riguarda la durata di simili misure. La legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso» (ordinanza n. 299 del 1999)””.
Secondo i Giudici Costituzionali, il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
A differenza del pagamento differito dell’indennità di fine servizio in caso di cessazione anticipata dall’impiego – in cui il sacrificio inflitto dal meccanismo dilatorio trova giustificazione nella finalità di disincentivare i pensionamenti anticipati e di promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa (sentenza n. 159 del 2019) – il, sia pur più breve, differimento operante in caso di cessazione dal rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio non realizza un equilibrato componimento dei contrapposti interessi alla tempestività della liquidazione del trattamento, da un lato, e al pareggio di bilancio, dall’altro. Ciò in quanto la previsione ora richiamata ha «smarrito un orizzonte temporale definito» (sentenza n. 159 del 2019), trasformandosi da intervento urgente di riequilibrio finanziario in misura a carattere strutturale, che ha gradualmente perso la sua originaria ragionevolezza.
Inoltre, secondo il giudice delle leggi, lo scrutinio di legittimità costituzionale si innesta in un quadro macroeconomico in cui il sensibile incremento della pressione inflazionistica acuisce l’esigenza di salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita, posto che il rapporto di proporzionalità, garantito dall’art. 36 Cost., tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, richiede di essere riferito «ai valori reali di entrambi i suoi termini» (sentenza n. 243 del 1993).
Di conseguenza, la dilazione del TFS, non essendo controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria, finisce per incidere sulla stessa consistenza economica delle prestazioni di cui si tratta, atteso che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, allo scadere del termine annuale in questione e di un ulteriore termine di tre mesi, sono dovuti i soli interessi di mora.
La Corte precisa, tuttavia, come al vulnus costituzionale riscontrato essa non possa, allo stato, porre rimedio, “posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore”, sulla base della considerazione del “rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato, ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri. La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata”.
La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, secondo il giudice delle leggi, un intervento legislativo prioritario, che contemperi l’indifferibilità della “reductio ad legitimitatem” con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.
Al riguardo, la Corte non manca di evidenziare come, “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia» (cfr. sentenza n. 22 del 2022; sentenze n. 120 e n. 32 del 2021)”.
Quanto, poi, alla previsione del pagamento rateale del trattamento di fine servizio di cui all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, la Corte considera che tale disciplina – peraltro connessa, per espressa previsione della stessa norma censurata, alle esigenze, necessariamente contingenti, di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il descritto differimento, finisce per aggravare il vulnus evidenziato.