I comportamenti del dipendente pubblico non possono essere censurati disciplinarmente

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I comportamenti del dipendente pubblico, allorché privi di rilievo penale e relativi alla vita privata, non possono essere censurati disciplinarmente

Il principio è stato enunciato dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Prima) nella Sentenza n. 268/2022 del 27 luglio 2022.

La vicenda ha riguardato il ricorso presentato da un appartenente alla Polizia di Stato per l’annullamento del provvedimento disciplinare con il quale era stata inflitta al ricorrente la sanzione della pena pecuniaria nella misura di 3/30 con la seguente motivazione: «Intratteneva una relazione sentimentale con una minorenne, cagionando discredito all’immagine della Polizia di Stato».

Nella contestazione di addebito, si sostiene che la condotta tenuta dal ricorrente, a prescindere dal procedimento penale conclusosi con sentenza con cui il GIP lo ha assolto dal reato di atti persecutori «perché il fatto non sussiste», non fosse conforme alla dignità delle funzioni di un appartenente alla Polizia di Stato e configurasse la mancanza prevista dall’art. 4, n. 18, del DPR n. 737 del 1981 in relazione all’art. 13 del DPR n. 782 del 1985.

I giudici del Tribunale Amministrativo hanno accolto il ricorso e annullato il provvedimento disciplinare, per le seguenti ragioni: in primo luogo, ha rilievo la considerazione che i fatti descritti nella denuncia che ha dato avvio al procedimento penale si sono rivelati insussistenti, ragion per cui, non essendo penalmente rilevante, la condotta tenuta dal ricorrente può essere considerata ai fini dell’applicazione di sanzioni disciplinari solo nella misura in cui sia tale da compromettere la «dignità delle proprie funzioni», cui il personale della Polizia di Stato deve conformare la propria condotta anche fuori servizio, ai sensi del co. 2 dell’art. 13 del DPR n. 782 del 1985.

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Orbene, secondo il Tribunale “tale valore deve intendersi secondo i parametri riferiti al comportamento da avere in servizio, ai sensi del co. 1 della medesima disposizione, secondo cui il poliziotto «deve mantenere una condotta irreprensibile», operando con senso di responsabilità, nella piena coscienza delle finalità e delle conseguenze delle proprie azioni in modo da riscuotere la stima, la fiducia ed il rispetto della collettività, la cui collaborazione deve ritenersi essenziale per un migliore esercizio dei compiti istituzionali, e deve astenersi da comportamenti o atteggiamenti che arrecano pregiudizio al decoro dell’Amministrazione”.

I doveri di correttezza, lealtà, onore, decoro e disciplina, che trovano fondamento nell’art. 54 co. 2 Cost., richiamano dunque «una condotta conforme al senso morale, alla dignità delle proprie funzioni e ai doveri assunti con il giuramento» al fine di conservare e rafforzare «non solo la necessaria fiducia reciproca tra gli stessi membri della Polizia di Stato ma, altresì, il credito e la stima che il personale medesimo deve godere nel consorzio civile» (in questi termini, tra le più recenti, TRGA Trento, sent. n. 111 del 2021).

A tal proposito, secondo i giudici, laddove i fatti contestati al dipendente s’inseriscano nel quadro di una relazione tra due soggetti entrambi giuridicamente capaci di autonome scelte di carattere sessuale, essi si sottraggono, in assenza di costrizione o comunque d’ingerenze abusive, anche alle censure dell’Amministrazione e impediscono a quest’ultima di fondare su di essi un giudizio negativo di tipo disciplinare (in tal senso, la sent. n. 16 del 2022 di questo TAR, resa rispetto a un provvedimento di esclusione dall’assunzione in un Corpo di Polizia per asserita carenza dei requisiti “morali”, le cui considerazioni possono comunque estendersi anche al caso in esame, stante l’analogia tra le due fattispecie).

Tale conclusione s’impone anche in ragione dei principi costituzionali e convenzionali, che garantiscono agli individui libere scelte in materia sessuale: da tempo, infatti, la Corte costituzionale ha incluso la “libertà sessuale” tra i diritti inviolabili riconosciuti dall’art. 2 Cost., in quanto rappresenta «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana» (sent. n. 561 del 1987 e, più di recente, sent. n. 141 del 2019); analogamente, la Corte europea dei diritti dell’uomo afferma che la “vita privata”, che ogni persona ha diritto venga rispettata ai sensi dell’art. 8 della CEDU, comprende anche la vita sessuale (si v. la sent. 22.10.1981 nel caso “Dudgeon c. Regno Unito”, pt. 41).

Pertanto, chiarisce la Sentenza, i comportamenti del dipendente pubblico in campo sessuale che, come nella specie, siano privi di rilievo penale e connati nell’ambito della vita privata, non possono esporsi a censure da parte dell’Amministrazione di appartenenza.

Per quanto concerne, poi, il “rilievo mediatico” della vicenda, richiamato nel provvedimento impugnato a fondamento della sanzione, secondo i giudici il clamore non è derivato tanto dall’esistenza della relazione, quanto piuttosto dall’accusa di atti persecutori mossa al ricorrente e poi rivelatasi infondata (peraltro lo stesso articolo di giornale prodotto dalla difesa erariale dà conto del fatto che, all’epoca in cui è stato pubblicato, le tesi dell’accusa e della difesa erano tutte ancora da dimostrare e che la vicenda sarebbe stata ancora tutta da chiarire).

Infine, laddove l’Amministrazione lamenti di aver subito un danno all’immagine, il “clamor fori” è rilevante solo in quanto derivi da una condotta illecita del dipendente e non può di per sé solo giustificare un provvedimento disciplinare; sarebbe al contrario irragionevole e sproporzionato infliggere al dipendente una sanzione per il mero fatto che un’accusa mossa nei suoi confronti sia divenuta di dominio pubblico e riguardi condotte che, laddove accertate, siano tali da suscitare una diffusa riprovazione.

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