La Corte Costituzionale ritorna sul tema del suicidio assistito

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Con la sentenza n. 135 del 18 luglio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Firenze sull’articolo 580 del codice penale, che miravano a estendere l’area della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Corte con la precedente sentenza del 2019.

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata in un procedimento penale contro tre persone che avevano aiutato un paziente affetto da sclerosi multipla di grado avanzato, in stato di quasi totale immobilità, ad accedere al suicidio assistito in una struttura privata svizzera.

La Corte ha, anzitutto, escluso che la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti, ribadendo, in relazione all’autodeterminazione terapeutica, il diritto del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza. Il diritto all’autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, secondo i giudici della Consulta, è più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, al fine di evitare abusi anche a causa di una «pressione sociale indiretta» che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi.

Secondo il Giudice delle leggi, il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, nell’ambito della cornice precisata dalla giurisprudenza costituzionale.

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La Corte ha poi sottolineato che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge. La nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione e connessa alla concezione che il paziente ha della propria persona finisce poi per coincidere con quella di autodeterminazione. Anche rispetto ad essa resta quindi necessario un bilanciamento, a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana.

La Corte ha negato, inoltre, la violazione del diritto alla vita privata riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella sentenza Karsai contro Ungheria del 13 giugno 2024, in effetti, la stessa Corte di Strasburgo ha escluso che l’incriminazione dell’assistenza al suicidio violi il diritto alla vita privata di una persona affetta da una patologia degenerativa del sistema nervoso in stato avanzato, riconoscendo un ampio margine di apprezzamento a ciascuno Stato nel bilanciamento tra tale diritto e la tutela della vita umana.

Tuttavia, la Consulta ha precisato che la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019. Questa sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento.

È, dunque, necessario, per tutti i fatti successivi al 2019, che le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, previo parere del comitato etico territorialmente competente, senza che possa venire in rilievo l’ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite. Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l’elemento soggettivo.

Infine, la Corte ha espresso il forte auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati. Ha, inoltre, ribadito lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010.

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