La normativa sulla tutela legale è applicabile anche ai Giudici di Pace

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Con la sentenza n. 267 del 9 dicembre 2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l’occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui non prevede che il Ministero della giustizia rimborsi le spese di patrocinio legale al giudice di pace nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa.

La questione era stata devoluta al Giudice delle leggi dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con ordinanza del 29 ottobre 2019, nel corso di un giudizio promosso da un Giudice di pace che, assolto con sentenza definitiva da un’imputazione di corruzione in atti giudiziari per fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni, impugnava il respingimento di un’istanza di rimborso delle spese legali sostenute nel corso del procedimento penale, istanza respinta dal Ministero della giustizia con l’argomento che il rimborso non è previsto per i giudici onorari.

Secondo il TAR rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost. in quanto l’esclusione del rimborso determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento con riferimento «quantomeno a quei funzionari onorari che svolgano funzioni sostitutive/integrative, ed in ogni caso di valore equivalente, rispetto a quelle svolte da funzionari “di ruolo”»; con specifico riguardo ai magistrati onorari, l’omesso riconoscimento del diritto al rimborso ne lederebbe l’indipendenza, tutelata dagli artt. 104, primo comma, 107 e 108, secondo comma, Cost., potendo inoltre «incidere sulla qualità del servizio e, quindi, sul buon andamento della amministrazione della giustizia», con violazione anche dell’art. 97 Cost.

La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione rimessa alla propria cognizione, dichiarando, con riferimento all’art. 3 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, nella parte in cui non prevede che il Ministero della giustizia rimborsi le spese di patrocinio legale al giudice di pace nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa.

I Giudici della Consulta hanno osservato che in sede di rinvio pregiudiziale, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, deve essere interpretato nel senso che il giudice di pace italiano rientra nella nozione di «giurisdizione di uno degli Stati membri», in quanto organismo di origine legale, a carattere permanente, deputato all’applicazione di norme giuridiche in condizioni di indipendenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX).

Nella medesima sentenza, considerate le modalità di organizzazione del lavoro dei giudici di pace, la Corte di giustizia ha affermato che essi «svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».

Quindi, interpretando gli artt. 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, nonché le clausole 2 e 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, la Corte di Lussemburgo, riportata la figura del giudice di pace alla nozione di «lavoratore a tempo determinato», ha stabilito, con riferimento al tema specifico delle ferie annuali retribuite, che differenze di trattamento rispetto al magistrato professionale non possono essere giustificate dalla sola temporaneità dell’incarico, ma unicamente «dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità».

La differente modalità di nomina, radicata nella previsione dell’art. 106, secondo comma, Cost., il carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta e il livello di complessità degli affari trattati rendono conto dell’eterogeneità dello status del giudice di pace, dando fondamento alla qualifica “onoraria” del suo rapporto di servizio, affermata dal legislatore fin dall’istituzione della figura e ribadita in occasione della riforma del 2017.

Questi tratti peculiari non incidono tuttavia sull’identità funzionale dei singoli atti che il giudice di pace compie nell’esercizio della funzione giurisdizionale, per quanto appunto rileva agli effetti del rimborso di cui alla norma censurata.

Secondo i Giudici della Corte Costituzionale la ratio dell’istituto di tutela legale (cfr. Sentenza n. 189 del 2020), è quella di «evitare che il pubblico dipendente possa subire condizionamenti in ragione delle conseguenze economiche di un procedimento giudiziario, anche laddove esso si concluda senza l’accertamento di responsabilità» e sussiste per l’attività giurisdizionale nel suo complesso, quale funzione essenziale dell’ordinamento giuridico, con pari intensità per il giudice professionale e per il giudice onorario.

In questo senso, come pure rilevato dalla medesima sentenza, il beneficio del rimborso delle spese di patrocinio «attiene non al rapporto di impiego […] bensì al rapporto di servizio», trattandosi di un presidio della funzione, rispetto alla quale il profilo organico appare recessivo.

Attesa, pertanto, l’identità della funzione del giudicare, e la sua primaria importanza nel quadro costituzionale, secondo i Giudici della Consulta, “è irragionevole che il rimborso delle spese di patrocinio sia dalla legge riconosciuto al solo giudice “togato” e non anche al giudice di pace, mentre per entrambi ricorre, con eguale pregnanza, l’esigenza di garantire un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici connessi ad eventuali e pur infondate azioni di responsabilità”.

Resta fermo che “l’insorgenza del diritto al rimborso richiede sempre – anche per il giudice di pace – gli estremi oggettivi indicati dall’art. 18, comma 1, del d.l. n. 67 del 1997, come convertito, e quindi, per giurisprudenza costante, l’esistenza di un nesso causale e non meramente occasionale tra la funzione esercitata e il fatto contestato (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 novembre 2018, n. 28597, e, da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 28 settembre 2020, n. 5655)”.

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