La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 23578 del 20 agosto 2025, ha confermato l’illegittimità di un licenziamento disciplinare, confermando la decisione della Corte di merito che aveva ritenuto che i controlli effettuati, relativamente all’assenza dal lavoro, fossero troppo invasivi rispetto alla vita privata del lavoratore, in quanto avviati in modo eccessivo e attuati senza rispettare i principi di proporzionalità e necessità previsti dalla legge.
In tale contesto, non erano utilizzabili come prove (nemmeno come prove atipiche) elementi conoscitivi acquisiti in violazione di diritti fondamentali, come il diritto alla protezione dei propri dati personali.
La Suprema Corte ha richiamato i principi espressi dalla sua precedente giurisprudenza in tema di controlli difensivi, richiamando sul punto le motivazioni già espresse nella sentenza n. 18168 del 2023, nella quale viene evidenziato che il datore di lavoro può effettuare controlli, anche tecnologici, per proteggere beni aziendali o prevenire illeciti, ma solo se ha un sospetto fondato e se il controllo è proporzionato e rispetta la dignità e la privacy del lavoratore. Inoltre, i dati raccolti devono essere successivi al momento in cui nasce il sospetto. La Cassazione ha, inoltre, sottolineato come, indipendentemente dal fatto che il controllo potesse essere qualificato come “difensivo”, la doglianza sollevata non avrebbe comunque potuto condurre all’annullamento della sentenza impugnata, ritenendo che il datore di lavoro avesse adottato “una interpretazione eccessivamente rigorosa del ‘sospetto’ necessario per l’avvio di un controllo”, quando invece sarebbe sufficiente “un sospetto o una mera ipotesi” di illiceità del comportamento tenuto dal dipendente. Come ricordato dalla giurisprudenza, “in nessun caso può essere giustificato un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore” (Cassazione 25732/2021).
Anche nel caso di controllo difensivo “in senso stretto” lecito, occorre comunque sia “assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore”.
Ebbene, nel caso esaminato, il giudizio di invasività si fondava sul fatto che il controllo fosse stato effettuato per ben 16 giorni, seppure non continuativi, durante il periodo natalizio, includendo anche le giornate di Natale e Santo Stefano, nonché la fine e l’inizio dell’anno. Il pedinamento era avvenuto su strade pubbliche e all’interno di locali aperti al pubblico, come ristoranti, ma aveva coperto quasi integralmente il tempo in cui il lavoratore si trovava fuori casa, anche dalle 7 del mattino fino alla sera oltre le 20, andando quindi ben oltre le fasce orarie di reperibilità previste per la malattia.
Inoltre, il controllo aveva coinvolto non solo i familiari che erano con il lavoratore (in particolare, il figlio), ma anche i terzi che via via aveva incontrato in quel periodo.
Per contro, al datore di lavoro sarebbe bastato richiedere una visita fiscale all’INPS, richiesta che avrebbe consentito di verificare l’eventuale violazione delle fasce di reperibilità.