Diritto al risarcimento del danno per stress professionale causato da turni eccessivi e condizioni lavorative usuranti
La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 7 ottobre 2025, n. 26923, ha affermato la responsabilità del datore di lavoro in relazione allo stress professionale causato da turni eccessivi e condizioni lavorative usuranti.
La decisione ha avuto origine dal riconoscimento di un infortunio per causa di servizio e dalla conseguente liquidazione di un equo indennizzo agli eredi in relazione al decesso di un medico anestesista, colto da infarto del miocardio dopo esser rimasto in servizio tutta la notte nel corso della quale aveva partecipato ad un intervento d’urgenza e aveva, poi, continuato a monitorare il decorso post-operatorio del paziente anche nelle ore seguenti.
A seguito del riconoscimento, gli eredi del medico deceduto intentavano causa lamentando l’omessa adozione da parte dell’Azienda sanitaria delle misure volte alla salvaguardia dell’integrità psico-fisica del dipendente, deceduto – a loro dire – a causa dell’eccessivo carico di lavoro, chiedendo al Tribunale l’accertamento della responsabilità per fatto illecito ai sensi dell’art. 2087 c.c.
Il Tribunale rigettava il ricorso con decisione che veniva confermata in appello sulla base dell’assenza del nesso di causalità tra il decesso del medico, determinato dall’infarto, e lo svolgimento dell’attività lavorativa sulla base delle modalità come accertate in fatto.
La questione, quindi, perveniva alla cognizione della Cassazione che accoglieva il ricorso degli eredi del medico deceduto ribaltando le conclusioni della fase di merito.
Secondo i giudici di legittimità “In tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso; ne consegue che, una volta provato il predetto nesso causale, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso.” (Cass. Sez. L., Sentenza n. 24804 del 18/08/2023).
Pertanto, secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere insussistente la prova del nesso causale fra decesso e attività lavorativa.
Al riguardo, viene ribadito il principio secondo cui “il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso” (v. Cass. n. 6008/2023; conformi Cass. nn. 34968/2022; 23187/2022). Una volta provato tale nesso causale, “grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso”.
In particolare, secondo i giudici di legittimità, dato atto della sussistenza del nesso causale tra prestazione lavorativa e danno ricollegabile non al singolo episodio, ma all’incidenza dell’intero atteggiarsi del rapporto di lavoro caratterizzato da un lato da turni altamente stressanti, dall’altro dalla insussistenza di pregresse patologie aventi incidenza causale ed ancora dall’avvenuto riconoscimento dell’equo indennizzo, è da rilevarsi che nel caso di specie l’inadempimento (più precisamente, il non esatto adempimento) del datore di lavoro non viene accertato dalla Corte territoriale sulla base dell’erronea affermazione che il dipendente non avesse assolto all’onere probatorio del nesso causale, come invece accertato in sede di riconoscimento della causa di servizio, con conseguente mancata valutazione della condotta datoriale in termini di inadempimento dell’obbligo contrattuale di tutelare l’integrità fisica del lavoratore.
Gravava pertanto sul datore di lavoro l’onere di provare che il danno – pur eziologicamente riconducibile alla prestazione di lavoro – “è stato determinato da impossibilità della (esatta) prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (art. 1218 c.c.). A tale conclusione si giunge applicando il principio generale in materia di ripartizione degli oneri probatori nelle cause di risarcimento danni da inadempimento contrattuale – che non soffre eccezione nel caso della responsabilità per violazione dell’obbligo posto a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. (v., per tutte, la già citata Cass. n. 34968/2022) – e non certo configurando tale ultima responsabilità in termini di responsabilità oggettiva, come paventato nella sentenza impugnata.






