La Corte dei conti della Toscana ha sollevato un’eccezione di costituzionalità in relazione al ricorso presentato da un dirigente scolastico in pensione per ottenere la perequazione integrale del trattamento pensionistico negli anni 2022, 2023, 2024, previa remissione degli atti del giudizio alla Corte costituzionale, in quanto essendo titolare di un trattamento pensionistico «pari a 5.708,11 lordi mensili, quindi superiore a dieci volte il minimo Inps», subiva «gli effetti negativi dei limiti alla perequazione automatica previsti dalla legge di bilancio 2023».
Il ricorso ha portato alla decisione del giudice contabile di trasmettere gli atti alla Consulta per una questione di legittimità costituzionale dell’articolo della legge di «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023- 2025», con riferimento agli articoli 3, 23, 36 e 38 della Costituzione.
La Corte dei conti toscana nell’ordinanza di rimessione precisa che: «La penalizzazione dei titolari di trattamenti pensionistici più elevati lede non solo l’aspettativa economica ma anche la stessa dignità del lavoratore in quiescenza» in «tale prospettiva la pensione più alta alla media non risulta considerata dal legislatore come il meritato riconoscimento per il maggiore impegno e capacità dimostrati durante la vita economicamente attiva, ma alla stregua di un mero privilegio, sacrificabile anche in un’asserita ottica dell’equità intergenerazionale». Il giudice contabile aggiunge che: «La particolare dignità dell’attività lavorativa come contributo al progresso della società implica la necessità di valorizzare i principi della proporzionalità della retribuzione ‘alla quantità e qualità del suo lavoro’ (art.36 Cost.) e la funzione propriamente previdenziale dei trattamenti pensionistici (art. 38 Cost.), rendendo necessario mantenere la proporzionalità anche nei confronti dei lavoratori in quiescenza, non solo per assicurare al soggetto un trattamento economico commisurato all’attività lavorativa svolta ma per tutelare la stessa dignità del lavoratore che non può essere sminuita nel periodo successivo al collocamento in pensione».
Ricordiamo che con la Manovra 2023 l’attuale governo ha rivisto il meccanismo di indicizzazione delle pensioni, tagliando la rivalutazione per gli importi più alti. L’aumento rimaneva del 7,3% per le pensioni fino a 4 volte il minimo. Calava, invece, per le pensioni oltre quella soglia: 6,2% per gli assegni fino a 5 volte il minimo (pari a circa 1.600 euro netti), 3,8% tra 5 e 6 volte il minimo. Contro il taglio della rivalutazione anche la Uil pensionati aveva deciso di fare ricorso. «La rivalutazione non è un aumento, ma lo strumento principale per conservare nel tempo il valore delle pensioni – aveva spiegato il sindacato a luglio del 2023.
La Legge di bilancio 2023, invece, alle pensioni di importo superiore a 4 volte il Trattamento minimo taglia la rivalutazione con percentuali che vanno dal 15% al 68%. Questo comporta perdite significative sugli importi delle pensioni. Una pensione netta di circa 2.500 euro mensili, ad esempio, perde circa 1.500 euro nel solo 2023». A margine dell’udienza iniziale del primo dei 5 ricorsi contro il taglio, è cominciato l’iter giudiziale che condurrà a una pronuncia della Corte Costituzionale.
Si aprono, dunque, nuovi scenari per la rivalutazione delle pensioni. Un argomento che torna a tenere banco alla luce del tasso di inflazione previsionale con cui l’INPS da gennaio dovrà adeguare i trattamenti.
Invero, nel caso in cui il ricorso venga approvato è, in astratto, ipotizzabile l’arrivo di arretrati per i pensionati che non hanno ottenuto la piena rivalutazione del proprio assegno.