L’accesso all’edilizia residenziale pubblica non può essere condizionato alla residenza in loco
È irragionevole negare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a chi, italiano o straniero, al momento della richiesta non sia residente o non abbia un lavoro nel territorio della Regione da almeno cinque anni. Questo requisito, infatti, non ha alcun nesso con la funzione del servizio pubblico in questione, che è quella di soddisfare l’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di effettivo bisogno. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 44 del 9 marzo 2020, con cui la Consulta ha accolto la censura sollevata dal Tribunale di Milano sul requisito della residenza o dell’occupazione ultraquinquennale stabilito dall’articolo 22, primo comma, lettera b), della legge della Regione Lombardia n. 16/2016 per accedere ai servizi abitativi.
La l.r. lombarda 8 luglio 2016 n. 16, analogamente a quanto già previsto dalla previgente normativa già oggetto dell’ordinanza n. 32 del 2008 della Corte, stabiliva che i beneficiari dei servizi abitativi pubblici devono, tra i vari requisiti, avere “residenza anagrafica o svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda”.
La Corte dopo aver ribadito, richiamando la propria giurisprudenza sul tema, che il diritto all’abitazione rientra tra i diritti inviolabili e che l’abitazione è “bene di primaria importanza” e dopo aver sottolineato che “i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono presentare un collegamento con la funzione del servizio, conclude per l’ “irragionevolezza del requisito della residenza ultraquinquennale previsto dalla norma censurata come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio ERP”, in quanto esso non rivela alcuna condizione significativa attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente.
Di fronte all’argomento della difesa regionale che veniva a ricalcare alcune affermazioni della sent. n. 222 del 2013, in base al quale il requisito della residenza protratta servirebbe a garantire un’adeguata stabilità nell’ambito della regione, la Corte sottolinea che esso non è di per sé indice di un’elevata probabilità di permanenza in un determinato territorio ed osserva anche che lo stesso radicamento territoriale non potrebbe comunque assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno. È, infatti, “irragionevole che anche i soggetti più bisognosi siano esclusi a priori dall’assegnazione degli alloggi solo perché non offrirebbero garanzie di stabilità”, e come già affermato nella sentenza n. 107 del 2018[20] siffatti requisiti rischiano di “privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza”.
Analoghe considerazioni sono rivolte al requisito dello svolgimento di attività lavorativa, perché, anche se esso può essere considerato un ragionevole indice di collegamento col territorio, comporta la negazione del rilievo della condizione di bisogno in contraddizione con la funzione sociale del servizio.
La Corte conclude che i requisiti previsti dalla legge lombarda contrastano sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, perché essi contraddicono la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica. E possono inoltre venire a discriminare non solo gli stranieri, ma anche i cittadini che abbiano esercitato la loro libertà di circolazione e soggiorno.
Nell’ampio e articolato panorama della giurisprudenza della Corte sul tema, questa sentenza si pone in linea con quelle pronunce (cfr. sentt. n. 40/2011, 2/2013, 133/2013, 172/2013, 107/2018 che riguardavano però altre tipologie di prestazioni sociali) che colgono nella richiesta della residenza prolungata sul territorio una distonia, un requisito cioè non coerente con la ratio della norma, il quale finisce per essere ingiustamente discriminatorio nei confronti di chi quella residenza non l’ha maturata. La Corte adotta una motivazione stringata, ma chiara e incisiva che mette in evidenza come “il radicamento territoriale” non può “assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno”: la richiesta di un certo numero di anni di residenza risulta fuori asse rispetto alla finalità della legge e quindi depriva la norma di coerenza interna. E come sottolineato nella sentenza n. 107/2018, se una provvidenza risponde direttamente alla finalità di uguaglianza sostanziale fissata dall’art. 3, secondo comma Cost. deve rispondere alla situazione di disagio che si intende supportare e non far riferimento a criteri ad essa estranei.