La sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”

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La sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste” e la sua efficacia nel giudizio disciplinare

La sentenza penale di assoluzione “perché il fatto non sussiste” ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnazione di un licenziamento disciplinare, vincolando il giudice a ritenerlo illegittimo anche quando nella motivazione si legge che è dubbia la riferibilità in concreto del fatto contestato all’imputato.

Il principio è espresso dalla recente sentenza n. 27130/2022, della Corte di Cassazione, sezione lavoro la quale, pur pronunciandosi in materia di pubblico impiego a regime non pubblicistico, ha ribadito un principio generale in ordine all’applicazione degli artt. 653 e 654 c.p.p., che definiscono l’efficacia del giudicato penale di condanna o di assoluzione.

I giudici di piazza Cavour hanno chiarito che la normativa attribuisce efficacia di giudicato alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna.

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Pertanto, in tema di rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare anche se l’accertamento contenuto nella sentenza penale passata in giudicato non preclude una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, questa regola incontra il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità e della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione operata nel giudizio penale.

Pertanto, la sentenza penale di assoluzione per gli stessi fatti posti a base del licenziamento non ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, solo quando la formula assolutoria adottata è “perché il fatto non costituisce reato”.

La vicenda di fatto ha riguardato il ricorso proposto in Cassazione da un dipendente dell’Agenzia delle entrate che ha impugnato la decisione con cui la Corte d’Appello, come il Tribunale in primo grado, aveva ritenuto la legittimità della sanzione espulsiva in riferimento a un fatto valutato in sede penale e definito con sentenza che acclarava che il fatto non era stato commesso.

Gli ermellini muovono dalla considerazione che l’efficacia delle sentenze penali nel giudizio disciplinare è regolata dall’art. 653, cod. proc. pen. – disposizione che fa sistema con l’art. 654, cod. proc. pen. nel definire l’efficacia del giudicato penale di condanna o di assoluzione – che attribuisce efficacia di giudicato alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna, rispettivamente quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso e quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

I giudici rammentano che la giurisprudenza di legittimità ha lungamente affermato che in tema di rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, l’accertamento contenuto nella sentenza penale passata in giudicato, seppure non precluda una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, incontra il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (Cass., n. 3659 del 2021).

Viene, altresì, precisato che la sentenza penale di assoluzione per gli stessi fatti posti a base del licenziamento non ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, solo quando la formula assolutoria adottata è “perché il fatto non costituisce reato”, in quanto, ai sensi dell’art. 653, cod. proc. penale, tale efficacia opera solo quando l’accertamento sia relativo alla insussistenza del fatto, alla mancata commissione dello stesso da parte dell’imputato o alla mancata rilevanza penale dell’illecito (Cass., n. 17221 del 2020).

Secondo la Suprema Corte nel caso in esame la Corte d’Appello non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi sopra esplicitati, atteso che la sentenza penale pronunciata dal giudice di merito, nel richiamare l’art. 530 cpv cod. proc. pen. (che recita al primo cpv: “Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo”, e al secondo cpv: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”), ha assolto, tra gli altri, il ricorrente con la formula “perché il fatto non sussiste”, e nella motivazione si legge che era dubbia la riferibilità in concreto del fatto contestato all’imputato.

In conclusione, la Corte d’Appello non ha fatto corretta applicazione della disciplina dell’efficacia del giudicato penale di assoluzione nel procedimento disciplinare, considerando che il giudicante risultava vincolato all’accertamento operato dal giudice penale che aveva, sul fatto contestato disciplinarmente, pronunciato sentenza di assoluzione, con la formula “perché il fatto non sussiste” anche se nella motivazione si legge che era dubbia la riferibilità in concreto del fatto contestato all’imputato.

 

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