Riposi giornalieri – art. 40 D. LGS. r. 151/2001 – disposizioni in materia di tutela e sostegno maternità e paternità – Consiglio di Stato parere 2732 del 23 settembre 2009

3609

REPUBBLICA ITALIANA

Consiglio di Stato

Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 23 settembre 2009

NUMERO AFFARE 02732/2009

 

OGGETTO: Ministero dell’Interno Dipartimento Pubblica Sicurezza.

QUESITO: RIPOSI GIORNALIERI – ART. 40 D.LGS. N. 151/2001 – DISPOSIZIONI IN MATERIA DI TUTELA E SOSTEGNO MATERNITA’ E PATERNITA’.

 

LA SEZIONE

Vista la relazione trasmessa con nota n. 333-A/9807.F.6.2/5915 del 23 luglio 2009, con la quale il Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, ha chiesto il parere sul quesito in oggetto;

Esaminati gli atti e udito il relatore ed estensore Giuseppe Minicone;

 

Premesso:

Riferisce il Ministero dell’Interno che il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, con la decisione della Sezione VI n. 4293 del 9 settembre 2008, confermando la sentenza del T.A.R. per la Toscana n. 2478 del 25 novembre 2002, ha riconosciuto, ad un padre lavoratore appartenente alla Polizia di Stato, la possibilità di avvalersi dei riposi orari di cui all’art. 41 del d. lgs. 26 marzo 2001, n. 151, previsti in caso di parto plurimo, nella misura di quattro ore giornaliere, pur essendo la madre, al momento della richiesta del beneficio, casalinga.

In proposito, il giudice amministrativo ha ritenuto che, ai fini del riconoscimento al padre del periodo di riposo giornaliero di due ore, previsto dall’art. 39 del d. lgs., n. 151 del 2001, nel primo anno di vita del bambino, la madre casalinga sia da considerasi lavoratrice non dipendente e rientri, quindi, nell’ipotesi di cui al punto c) dell’art. 40 dello stesso decreto, secondo il quale il riposo in questione spetta, appunto, al padre “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente “.

Per giungere a tale conclusione, il Giudice di seconde cure ha valorizzato la “ratio” della norma, “volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato”, essendo l’attività di casalinga una attività lavorativa a tutti gli effetti, come affermato anche dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20324 del 20 ottobre 2005, che ha riconosciuto la risarcibilità, in capo, appunto, ad una casalinga, del danno da perdita della relativa capacità di lavoro.

Il Ministero riferente esprime forti perplessità circa l’equiparazione della madre casalinga alla lavoratrice, ai fini della concessione dei permessi giornalieri al padre, ritenendo che la “ratio” della disposizione sia, invece, quella di assicurare che al bambino siano prestate le cure necessarie da uno dei genitori tutte le volte in cui l’altro sia impossibilitato a svolgere tale incombenza.

Che tale sia il senso in cui va letta ed interpretata la norma discenderebbe dalle ipotesi indicate sotto le lettere a), b) e d) del medesimo art. 40, che riconoscono al padre la facoltà di fruire delle ore di riposo occorrenti per attendere ai bisogni del figlio, nel presupposto, sempre, della sussistenza di un oggettivo impedimento per la madre.

Ed invero, ad avviso del Ministero, sebbene l’art. 40, lett. b), del d. lgs. n. 151 del 2001 preveda la possibilità, per il padre lavoratore, di avvalersi dei riposi giornalieri “in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga “, il medesimo non potrebbe fruire del beneficio in esame qualora la madre risulti assente dal lavoro poiché collocata in congedo di maternità, ovvero in aspettativa o nelle pause lavorative previste nei contratti a part-time.

Alla luce delle osservazioni illustrate, l’Amministrazione ritiene che la successiva lett. c) del medesimo articolo, che prevede la possibilità per il padre di fruire dei riposi giornalieri “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, non possa che intendersi come riferita alla madre che svolga un lavoro autonomo (ad esempio quale artigiana, commerciante, coltivatrice diretta, colona, mezzadra, imprenditrice agricola professionale, parasubordinata e libera professionista) e che, pertanto, abbia titolo ad un trattamento economico di maternità a carico dell’INPS o di altro ente previdenziale.

Il padre, in questa ipotesi, potrebbe chiedere di avvalersi delle ore di riposo giornaliere esclusivamente alla scadenza dei tre mesi successivi al parto, sempreché la madre non intenda utilizzare, ininterrottamente, dopo il predetto periodo, il congedo parentale.

Secondo tale interpretazione, anche qualora il padre sia titolare dei permessi giornalieri non ne potrebbe fruire se la madre non stia esercitando alcuna attività lavorativa.

Unica, logica, eccezione a tale regola sarebbe prevista nell’ipotesi di parto plurimo, giacché, in questo caso, il padre sarebbe titolare delle ore aggiuntive di cui all’art. 41 del d. lgs. n. 151 del 2001, anche durante le assenze dal lavoro della madre.

Tale interpretazione sarebbe confermata dal rilievo che, ove il legislatore ha voluto riconoscere un autonomo diritto del singolo genitore alla applicazione di alcuni istituti, quali il congedo parentale (art. 32 del d. lgs. n. 151 del 2001) o il congedo per la malattia del bambino (art. 47), ha previsto esplicitamente la possibilità di fruire di tali benefici anche “qualora l’altro genitore non ne abbia diritto” e, dunque, anche qualora l’altro genitore non presti attività lavorativa.

In merito, inoltre, alla sentenza della Corte di Cassazione n. 20324 del 20 ottobre 2005, richiamata dalla Sezione VI del Consiglio di Stato, il Ministero sostiene che la Suprema Corte, con tale pronuncia, ha soltanto riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale alle casalinghe, affermando sostanzialmente il principio secondo il quale anche chi svolge un’attività domestica – ancorché non retribuita – esercita tuttavia un’attività suscettibile di valutazione economica e, pertanto, ha il diritto di ottenere, in caso di lesioni, il risarcimento dei danni patrimoniali, cumulativamente al risarcimento dei danni biologici e morali derivanti dalla momentanea impossibilità di prestare tale attività.

Dall’enunciato principio non potrebbe, però, farsi discendere l’implicito riconoscimento del diritto di fruire dei permessi giornalieri al lavoratore padre in caso di madre casalinga, poiché, in tal caso, il preminente interesse del minore, posto a fondamento del riconoscimento del beneficio in oggetto, sarebbe pienamente soddisfatto dalla presenza stessa della madre nell’ambito domestico, che renderebbe possibile conciliare l’espletamento delle incombenze assolte generalmente dalla donna casalinga con quelle per la cura del bambino.

Di nessun rilievo appare, infine, all’Amministrazione la circostanza che la madre lavoratrice possa essere coadiuvata nei lavori domestici da altra persona, poiché tale condizione potrebbe astrattamente verificarsi anche nel caso della madre casalinga.

In considerazione delle difficoltà interpretative sorte nonché degli affermati preoccupanti risvolti che l’interpretazione fornita nella citata pronuncia del Consiglio di Stato potrebbe avere sul regolare svolgimento dell’attività di polizia – soprattutto laddove la peculiarità di settori operativi richieda l’impiego del personale in turni continuativi articolati nell’arco delle 24 ore- il Ministero dell’Interno chiede il parere di questo Consiglio di Stato sulla questione sopra delineata.

Considerato:

1. La questione sottoposta all’esame di questa Sezione concerne l’interpretazione dell’art. 40 del d. lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”.

In particolare, si chiede di conoscere se sia condivisibile l’affermazione contenuta in una recente decisione del Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 4293 del 2008), secondo la quale con l’espressione “non…lavoratrice dipendente” il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa.

2. La Sezione, pur riconoscendo che la formulazione letterale della disposizione non appare del tutto perspicua, non ritiene che tale conclusione possa essere condivisa.

3. L’istituto del riposo giornaliero è stato introdotto nel nostro ordinamento come un beneficio strettamente collegato al parto ed alle esigenze fisiologiche ad esso connesse, come si ricava chiaramente dall’art. 9 della legge 26 agosto 1950 n. 860, che lo condizionava alla necessità di soddisfare i bisogni dell’allattamento.

Successivamente, l’art. 10 della legge n. 1204 del 1971, non menzionando più la necessità dell’allattamento e, anzi, prescindendo espressamente da essa – come è dimostrato dal riconoscimento alla madre della possibilità di usufruire cumulativamente delle ore di riposo e dalla previsione che, pur ove esista nella azienda una camera di allattamento o un asilo nido, la donna può decidere di non usufruirne e di godere del riposo intero -, ha modificato la natura e la finalità dell’istituto, il cui scopo è divenuto (come, del resto, indicato nella relazione illustrativa alla legge) quello di consentire alla madre di attendere ai molteplici compiti, tutti delicati e impegnativi, connessi con l’assistenza del bambino nel primo anno di vita.

Tale finalità è stata ribadita dall’art. 10 del D.P.R. 25 novembre 1976 n. 1076 (Regolamento di esecuzione della legge n. 1204 del 1971), in cui si è affermato che “i riposi di cui all’art. 10 devono assicurare alla lavoratrice la possibilità di provvedere alla assistenza diretta del bambino”.

3.1. Sennonché, una volta spostato il centro di attenzione della tutela legislativa dalla donna al minore, non poteva non essere presa in considerazione, nell’ambito del principio paritario affermato nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia di cui alla legge 19 maggio 1975, n. 151, e di quello sulla parità di trattamento sul lavoro di entrambi i sessi, di cui alla legge 9 dicembre 1977 n. 903, anche la posizione del padre.

In particolare, l’art. 7 di quest’ultima legge aveva attribuito al lavoratore padre la possibilità di usufruire – in alternativa alla madre o quando il figlio fosse a lui solo affidato – della astensione facoltativa dal lavoro per la durata di sei mesi nel primo anno di vita del bambino, riconoscendo, così, l’idoneità anche dell’uomo a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore, senza, peraltro, estendere allo stesso l’istituto del riposo giornaliero.

3.2. Su questo tessuto normativo è intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 19 gennaio 1987, la quale, nel dichiarare illegittima la mancata previsione del riposo giornaliero, ha affermato che l’esclusione del padre dallo specifico beneficio non teneva conto dell’interesse del minore, che sarebbe rimasto privo delle cure parentali tutte le volte in cui l’assistenza della madre fosse “resa impossibile a seguito della morte o del grave impedimento fisico della stessa”.

Ed invero, tutto l’iter argomentativo della pronuncia di illegittimità costituzionale si fonda sulla necessità del bambino di ricevere assistenza materiale e morale dal padre, una volta divenuta impossibile quella della madre, e tale concetto è trasfuso espressamente nel dispositivo della sentenza che dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 9 dicembre 1977 n. 903 nella parte in cui non prevede che il diritto all’astensione dal lavoro e il diritto al godimento dei riposi giornalieri, riconosciuti alla sola madre lavoratrice rispettivamente dagli artt. 6, legge 9 dicembre 1977 n. 903, 4 lett. c) e 10 della legge 31 dicembre 1971 n. 1204 siano riconosciuti anche al padre lavoratore ove l’assistenza della madre al minore sia divenuta impossibile per decesso o grave infermità”.

3.3. Con la successiva sentenza 21 aprile 1993, n. 179, la Corte Costituzionale, nell’intervenire nuovamente sull’art. 7 della legge n. 903 del 1977, ne ha dichiarato, ancora una volta, l’incostituzionalità nella parte in cui non estendeva, in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore, “in alternativa alla madre lavoratrice consenziente”, il diritto ai riposi giornalieri previsti dall’art. 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, per l’assistenza al figlio nel suo primo anno di vita.

Ed è significativo che la Corte costituzionale, nell’iter argomentativo, abbia, al riguardo, avvertito la necessità di precisare che, comunque, “il diritto ai riposi giornalieri retribuiti non può esercitarsi durante i periodi in cui il padre lavoratore o la madre lavoratrice godano già dei periodi di astensione obbligatoria (art. 4 della legge n. 1204 del 1971), o di assenza facoltativa (art. 7 della legge n. 1204 del 1971 stessa), o quando, per altre cause, l’obbligo della prestazione lavorativa sia interamente sospeso”, con ciò ribadendo la non applicabilità di tale istituto allorché uno dei due genitori già sia posto nella condizione di accudire il minore.

3.4. E’ con riferimento al quadro normativo delineatosi a seguito dell’intervento del giudice delle leggi che va valutato, allora, il disposto dell’art. 6 ter, introdotto, nella legge n. 903 del 1977, dalla legge 8 marzo 2000, n. 53, ai sensi del quale “i periodi di riposo di cui all’articolo 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, e i relativi trattamenti economici sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, dovendosi ragionevolmente ritenere, alla luce della ricostruzione storica dell’istituto, che il legislatore abbia inteso codificare i principi affermati dalla Corte costituzionale, che configuravano l’alternatività nel godimento del beneficio.

3.5. E tale conclusione risulta rafforzata con il recepimento della norma anzidetta nell’art. 40 del Testo unico di cui al d. lgs. 26 marzo 2001 n. 151 (del quale si discute in questa sede), che, colmando una lacuna in cui era incorso il legislatore del 2000, ha aggiunto, alle ipotesi recate dall’art. 6 ter della legge n. 903 del 1977, quella della impossibilità dell’assistenza materna per morte o malattia grave.

4. Orbene, alla luce della evoluzione del quadro legislativo sopra delineata, sembra, quindi, potersi affermare, con sufficiente certezza, che le quattro ipotesi contemplate dall’art. 40, per il riconoscimento del diritto del padre al riposo ordinario, abbiano tutte per presupposto che la madre non possa o non voglia, per ragioni giuridiche, fisiche o per scelta, provvedere, usufruendo dei riposi giornalieri nel primo anno di vita, alla cura del minore e che, pertanto, la ratio del combinato disposto degli artt. 39 e 40 sia quella di garantire la presenza, alternativamente, di uno dei due genitori (con la sola comprensibile eccezione del parto plurimo, disciplinata dall’art. 41, in cui le ore aggiuntive a quelle ordinarie possono essere utilizzate da entrambi).

5. Resta da stabilire, a questo punto, se, tuttavia, la madre “casalinga” possa farsi rientrare nell’ipotesi di cui alla lett. c) del più volte citato art. 40, che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio.

La soluzione affermativa, che ha indotto l’Amministrazione a richiedere il parere di questa Sezione, si fonda essenzialmente sull’evoluzione della giurisprudenza del giudice civile, secondo la quale chi svolge attività domestica nell’ambito del proprio nucleo familiare (attività tradizionalmente attribuita alla “casalinga”), benché non percepisca reddito monetizzato, svolge, tuttavia, un’attività lavorativa (ovviamente non dipendente), suscettibile di valutazione economica.

Da qui, la conclusione della equiparabilità della figura della casalinga a quella di tutte le lavoratrici non dipendenti, ai sensi e per gli effetti dell’attribuzione al padre del beneficio del riposo giornaliero nel primo anno di vita del bambino.

5.1. Ritiene la Sezione che l’argomentazione di cui sopra non sia sufficiente ad inficiare il principio di alternatività che, come si è detto, è a fondamento della disposizione di cui si discute.

Ed invero, la considerazione dell’attività domestica come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma, al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali, cosicché la valutabilità economica di tale attività, assunta a presupposto per assimilare la casalinga alle lavoratrici non dipendenti, si risolve, in definitiva, in una tautologia, comportando nient’altro che la rilevanza anche del venir meno della capacità di apprestare dette cure, ai fini della determinazione del danno patrimoniale derivante dalla menomazione della capacità lavorativa.

Ed in verità non si vede come possa differenziarsi l’ipotesi della “casalinga”, che dedica il suo impegno permanentemente al lavoro domestico (espressione, che, come ha ribadito il giudice ordinario, è da intendersi in senso ampio e, quindi, comprensivo anche dell’attività di coordinamento, in senso lato, della vita familiare: cfr., per tutte, Cass. 6 novembre 1997, n. 10923) da quella in cui la lavoratrice dipendente si dedichi a tale coordinamento solo in via temporanea e contingente, per essere stata esonerata dall’obbligo della prestazione lavorativa.

5.2. Né potrebbe addursi in contrario che l’esonero dalla prestazione lavorativa è finalizzato esclusivamente alla cura del minore, laddove la casalinga dovrebbe attendere contemporaneamente alle altre incombenze domestiche, dal momento che l’autonomia di gestione del tempo di attività nell’ambito familiare consente evidentemente alla madre di dedicare l’equivalente delle due ore di riposo giornaliero alle cure parentali.

Ugualmente non potrebbe opporsi l’ausilio, nel caso della madre lavoratrice, di una collaboratrice domestica, assente, invece, nel caso di madre “casalinga”, trattandosi di mera ipotesi di fatto, estranea al tessuto normativo in discorso e, comunque, non riscontrabile nella realtà, nella quale può aversi la presenza o l’assenza di una collaboratrice in entrambi i casi.

6. Certamente la Sezione è consapevole che la presenza di entrambi i genitori, quanto più è assidua, tanto più giova alla formazione e allo sviluppo psico-fisico del minore e che le cure paterne sono essenziali quanto quelle della madre, per tale finalità, ma non può non prendere atto che, alla luce del sistema vigente, il legislatore ha inteso tutelare le esigenze di cui sopra garantendo l’assistenza alternativamente di uno dei genitori (salve talune eccezioni espressamente previste), attraverso un delicato un bilanciamento tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli (che ha anche indubbio rilievo sociale) e la necessità di inscrivere l’esercizio di tale diritto-dovere nel quadro delle specifiche esigenze del datore di lavoro (anch’esse aventi rilevanza sociale).

P.Q.M.

Nei termini esposti è il parere della Sezione.

 

 

 

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Giuseppe Minicone Pasquale de Lise

 

 

 

 

IL SEGRETARIO

 

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