Whistleblowing e novità giurisprudenziali

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Contro le discriminazioni e le ritorsioni nei confronti del lavoratore dipendente che segnala favoritismi e irregolarità nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro è attivabile la procedura di whistleblowing che prevede la segnalazione dapprima al datore di lavoro e, successivamente, all’Anac e alla Guardia di finanza.

Come abbiamo già segnalato su queste pagine (flash n.15_2024), si tratta di un apparato di tutele finalizzato a prevenire azioni ostili sul piano professionale e della progressione di carriera nei confronti del dipendente che segnala condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza nel corso del rapporto di lavoro. Detto apparato deve essere predisposto dal datore evitando che si producano, da parte dei colleghi e del superiore gerarchico, condizioni di emarginazione, azioni intimidatorie e trattamenti professionali mortificanti e forieri di sofferenze anche sul piano morale.

Sono annoverate tra le misure ritorsive e discriminatorie le sanzioni disciplinari, il trasferimento, il demansionamento, le valutazioni con punteggio negativo e ogni altra misura organizzativa in grado di generare effetti mortificanti sulle condizioni di lavoro del segnalante.

Dal 17 dicembre 2023 devono risultare conformi alla disciplina sul Whistleblowing enti pubblici e privati con almeno 50 dipendenti nonché le amministrazioni statali, regionali e comunali con oltre 10.000 abitanti.

La tutela è prevista dal Dlgs 24/2023, che opera in recepimento della Direttiva UE n.1937/2019, e consiste nel garantire la riservatezza dell’identità della persona che compie la segnalazione (whistleblowing), della persona coinvolta e di quella menzionata nella segnalazione. Resta anonimo anche il dettaglio dei dati relativi al contenuto della segnalazione e della relativa documentazione. Tutto questo è possibile tramite l’obbligo di predisporre un’apposita procedura web interna per inviare le denunce o segnalazioni. In casi particolari si può ricorrere al canale di segnalazione esterno (ANAC) ed anche alla divulgazione pubblica, quando non addirittura alla denuncia presso l’Autorità giudiziaria.

La fonte è il testo dell’art. 54-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 che, dopo un lieve ritocco apportato con il d.l. 24 giugno 2014, n. 90 (convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114), è stato oggetto di una radicale riscrittura per effetto della legge n. 30 novembre 2017, n. 179 (entrata in vigore il 29 dicembre 2017).

Il comma 1 dell’art. 54-bis ha, in particolare, previsto che “Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere  sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione”.

Il successivo comma 2 ha, poi, stabilito, che “Ai fini del presente articolo, per dipendente pubblico si intende il dipendente delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, ivi compreso il dipendente di cui all’articolo 3, il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica”.

Per ciò che qui più interessa, va infine segnalato che il testo dell’art. 54-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 come novellato dalla l. n. 179 del 2017, innovando sensibilmente e potenziando il quadro di tutela offerta al whistleblower, ha precisato, al suo comma 7, che “È a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli”.

In applicazione di questi principi, si sta formando una giurisprudenza i cui principi siamo qui a evidenziare per l’importanza e gli effetti che gli stessi hanno sul rapporto di lavoro privato e pubblico.

La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare (sentenza n. 12688/2024 del 9 maggio 2024) che la tutela del segnalante è volta alla sua salvaguardia da reazioni ritorsive dirette e indirette, provocate dalla denuncia, nonché dall’applicazione di sanzioni disciplinari ad essa conseguenti poiché “La segnalazione […] (cd. “whistleblowing”) sottrae alla reazione disciplinare del soggetto datore tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell’illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare di cui alla norma invocata.”

Detta tutela, pertanto, è esclusa non solo a fronte dell’accertamento, con sentenza di primo grado, della responsabilità penale del segnalante per calunnia o diffamazione, ma anche con riferimento agli autonomi illeciti che il segnalante, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso (Corte di Cassazione sentenza 17715/2024).

La condotta ritorsiva, in conclusione, deve essere realizzata “in ragione della segnalazione” e deve provocare alla persona segnalante un “danno ingiusto”, in via diretta o indiretta.

Il Tribunale di Milano Con Sentenza 6 giugno 2025 n. 1680 ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore privato per la violazione della disciplina sul whistleblowing poiché “La stretta contiguità temporale tra la segnalazione e il licenziamento disciplinare, nonché l‘irrilevanza disciplinare e insussistenza dei fatti addebitati al signor (…) posti a base del licenziamento per giusta causa, sono di per sé indici chiari dell’intento ritorsivo del provvedimento espulsivo”.

Il Tribunale di Bergamo, con sentenza 951 del 6 novembre 2025, ha dichiarato la nullità delle azioni disciplinari e dei provvedimenti professionali adottati nei confronti di una agente di polizia locale, che aveva segnalato al proprio ente una serie di favoritismi nella erogazione di buoni pasto, indennità di turno e permessi studio e altre irregolarità nell’utilizzo di fondi regionali e nella gestione dei meccanismi di remunerazione premiale, condannando l’ente al risarcimento del danno morale patito dal dipendente in conseguenza del «profondo senso di malessere, isolamento emarginazione e umiliazione», di cui il datore è stato dichiarato responsabile ex articolo 2087 del Codice civile per il mantenimento di un ambiente ostile e nocivo, fonte di logorio fisico e mentale.

Un aspetto fondamentale della decisione riguarda la distinzione concettuale tra mobbing in senso tecnico e responsabilità datoriale per violazione dell’obbligo generale di sicurezza.

Il Tribunale, dopo aver precisato che il mobbing richiede la sussistenza cumulativa di elementi specifici quali “la pluralità, frequenza e la sistematicità dei comportamenti lesivi, unificati dall’intento specifico ed unitario di emarginare il soggetto mobbizzato, che comportano conseguenze patologiche sul piano fisico o psichico”, ha chiarito che, ove non sia configurabile una condotta di mobbing, è comunque ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro abbia consentito il mantenersi di un ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori.

Ancor più indicativa, perché riferita al settore pubblico e, in particolare, al comparto sicurezza, è la Sentenza del Consiglio di Stato (Sezione Sesta) n. 08079/2025 del 17 ottobre 2025.

Detta decisione ha definito la vicenda relativa a un dipendente della Polizia di stato che dopo aver inutilmente effettuato segnalazioni, ai propri superiori, di condotte illecite poste in essere da colleghi, e avendo presentato, per gli stessi fatti, segnalazione all’Autorità Nazionale Anticorruzione e denuncia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale territorialmente competente per l’accertamento della sussistenza di eventuali reati contro la pubblica amministrazione, subiva atti ritorsivi posti in essere dalla propria amministrazione con provvedimenti, tutti regolarmente impugnati, consistenti nel minor punteggio attribuito nei rapporti informativi, nell’inflizione della sanzione disciplinare del “richiamo orale” e di un trasferimento, per esigenze di servizio, ad altro ufficio della Questura. Il Consiglio di Stato ha ritenuto l’adozione di detti atti, da parte dell’amministrazione, “idonea a far scattare la presunzione legale iuris tantum di cui all’art. 17, secondo comma, del decreto legislativo n. 24 del 2023 (e ratione temporis ex art. 54-bis, comma 7, decreto legislativo n. 165 del 2001)”, decretando, pertanto la nullità degli stessi poiché compiuti in conseguenza delle segnalazioni presentate dall’interessato.

Secondo l’alto consesso amministrativo, a fondamento dei provvedimenti impugnati risultavano dedotti elementi direttamente o indirettamente collegati proprio alle segnalazioni o, comunque, al clima venutosi a creare a seguito della loro presentazione, ragion per cui debbono ritenersi atti a carattere “ritorsivo” e come tali, in contrasto con la normativa a tutela dei lavoratori del settore pubblico che segnalino illeciti, risultando perciò affetti dalla nullità espressamente comminata all’art. 19, comma 3, del decreto legislativo n. 24 del 2023 (ovvero ratione temporis art. 54- bis, comma 7, decreto legislativo n. 165 del 2001).

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