La sentenza della Consulta sul vaccino HPV

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La Corte Costituzionale con sentenza n. 181 del 26 settembre 2023, in forza del principio di non discriminazione e in conformità ai criteri individuati dalla sua giurisprudenza (sentenze n. 118 del 2020, n. 268 del 2017, n. 107 del 2012, n. 423 del 2000 e n. 27 del 1998), afferma che la prolungata e diffusa campagna di informazione e di raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche circa l’opportunità di sottoporsi alla vaccinazione contro il virus HPV è «a presidio della salute di ciascun singolo, dei soggetti a rischio, dei più fragili, e in definitiva della collettività intera».

Conseguentemente l’art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992, nel non prevedere il diritto all’indennizzo per il vaccino anti-HPV, si pone in contrasto con i plurimi parametri costituzionali evocati nell’ordinanza di rimessione da parte della Corte di Appello di Roma. Lede, infatti, l’art. 2 Cost., poiché vìola il principio di solidarietà che impone alla collettività di essere, per l’appunto, “solidale” con il singolo che subisce un danno per essersi attenuto alla condotta raccomandata dalle pubbliche autorità a tutela dell’interesse collettivo (sentenze n. 118 del 2020, n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012).

Vìola l’art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente pregiudica chi spontaneamente si attiene alla condotta richiesta dagli organi preposti alla difesa del diritto alla salute della collettività, rispetto a coloro il cui comportamento è adesivo a un obbligo giuridico presidiato da rimedi deterrenti (in senso analogo, sentenze n. 268 del 2017 e n. 27 del 1998). In particolare, una differenziazione che negasse il diritto all’indennizzo nel primo caso si risolverebbe in una patente irrazionalità della legge, poiché riserverebbe «a coloro che sono stati indotti a tenere un comportamento di utilità generale per ragioni di solidarietà sociale un trattamento deteriore rispetto a quello che vale a favore di quanti hanno agito in forza della minaccia di una sanzione» (sentenza n. 27 del 1998).

Contravviene all’art. 32 Cost., poiché priva di ogni tutela il diritto alla salute di chi si è sottoposto al vaccino (anche) nell’interesse della collettività (sentenze n. 15 del 2023, n. 5 del 2018, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). Per questi motivi, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione contro il contagio da papillomavirus umano (HPV).

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La Consulta afferma «l’esistenza di un interesse pubblico alla promozione della salute collettiva tramite il trattamento sanitario» (sentenza n. 423 del 2000; in senso analogo, sentenze n. 118 del 2020 e n. 268 del 2017, con la precipua funzione di assicurare la più ampia immunizzazione possibile a difesa della salute collettiva e che la condotta del singolo si attenga alla profilassi suggerita dall’autorità pubblica nell’interesse generale (sentenze n. 118 del 2020, n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012).

Tramite la campagna vaccinale l’autorità pubblica fa appello alla autodeterminazione dei singoli (o alla responsabilità genitoriale, ove si tratti di vaccinazioni raccomandate ai minori), ingenerando «negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie» (sentenza n. 118 del 2020).

Di conseguenza, in ambito medico, raccomandare e prescrivere finiscono per essere percepite quali azioni «egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo” (sentenza n. 5 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 137 del 2019), cioè la tutela della salute (anche) collettiva» (ancora, sentenza n. 118 del 2020). «La ragione determinante del diritto all’indennizzo» risiede, pertanto, nel perseguimento con la propria condotta dell’interesse collettivo alla salute e non nella «obbligatorietà in quanto tale del trattamento, la quale è semplicemente strumento per il perseguimento di tale interesse» (sentenza n. 226 del 2000; in senso analogo, sentenze n. 118 del 2020 e n. 107 del 2012).

La scelta tecnica dell’obbligatorietà o della raccomandazione, del resto, oltre a essere frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra singoli e autorità pubblica, può dipendere da condizioni sanitarie differenti nella popolazione di riferimento, spesso correlate a diversi livelli di rischio: tutti profili che non possono condizionare la previsione o l’assenza del diritto all’indennizzo. Ferma, dunque, restando la diversità fra le «due tecniche», di cui l’autorità pubblica può ritenere di avvalersi (sentenze n. 118 del 2020, n. 423 e n. 226 del 2000), nondimeno tra obbligo e raccomandazione non si apprezza una diversità qualitativa (sentenza n. 268 del 2017).

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