Riportiamo il testo della lettera del 3 febbraio u.s. inviata al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Interno, al Ministro della Giustizia e all’Avvocato di Stato, dalla Segreteria Nazionale:
“Crediamo di non rivelare nulla di inedito nell’affermare come la normativa sul rimborso delle spese legali sostenute per la difesa in giudizio dagli operatori della Polizia di Stato presenta irrisolte criticità. Parte delle quali sono riferibili ad un perfettibile impianto normativo. Altre, tutto tranne che marginali, hanno invece origine da interpretazioni delle Avvocature erariali periferiche.
Per aiutarci a rappresentare la consistenza dei profili problematici che andiamo ad introdurre crediamo che la vicenda processuale di alcuni poliziotti che stiamo assistendo sia emblematica.
Senza ripercorrere i fatti del processo penale presupposto, basti qui segnalare che 9 operatori del Reparto Mobile di Bologna, imputati per le lesioni gravissime patite da un tifoso al termine di un servizio di ordine pubblico per un incontro di calcio disputato nel 2005 a Verona, sono stati assolti dapprima dal Tribunale di Verona (sentenza 111/20139), e poi in secondo grado dalla Corte d’Appello di Venezia (sentenza 2802/2019) “per non aver commesso il fatto” ai sensi dell’art. 530, cpv. c.p.p.
L’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia, organo che, ai sensi dell’art. 18 del D.L. 18 marzo 1997, n. 67 – norma che per l’appunto disciplina il rimborso delle spese legali in narrativa – è stata chiamata ad esprimersi sulla congruità del richiesto rimborso. Seguendo una prassi da tempo invalsa, ed invero asseverata anche dalle Corti amministrative, l’organo erariale in menzione ha esteso la sua valutazione al merito della questione, concludendo che nel caso di specie “non si ravvisano i presupposti di legge per il rimborso delle spese legali”. Parere pedissequamente recepito dal Dipartimento della P.S., che ha comunicato agli interessati il preavviso di rigetto delle istanze inoltrate.
A stimolare le nostre perplessità, forse sarebbe più corretto dire il nostro smarrimento, sono i versanti argomentativi seguiti dall’Avvocatura erariale veneziana addotti a supporto del diniego. L’ente territoriale in questione spiega infatti di essersi conformata alla tesi che vuole “il secondo comma dell’art. 530 cpv. c.p.p. ripropone, in sostanza, le ipotesi legali che, secondo il vecchio previgente Codice Rocco, avrebbe comportato l’assoluzione per insufficienza di prove… la formula assolutoria pronunziata ai sensi del II comma dell’art. 503 c.p.p. non fuga completamente il dubbio in ordine alla sussistenza ed effettività dell’assenza totale di responsabilità prescritta per dar corso ed esecuzione al richiesto rimborso”.
Considerazioni in base alle quali – non senza clamorose decontestualizzazioni di brani presi dal tessuto motivazionale delle sentenze che paiono, non casualmente, scelte per rafforzare la tesi dell’incertezza in ordine all’effettivo esonero di responsabilità dei poliziotti assolti – non vi sarebbe alternativa all’ “imporre di riscontrare negativamente l’istanza dei nominati in oggetto”.
Stupisce in tutto ciò che esperti giuristi, quali si presume debbano essere gli estensori del parere su cui siamo ad impegnarci, si limitino con sbrigativo disimpegno a dare atto che esiste anche “un orientamento giurisprudenziale incline ad equiparare l’assoluzione in via dubitativa ex art. 530 cpv c.p.p. con la c.d. assoluzione piena contemplata dal primo comma della disposizione, ma ritiene che tale opinione si ponga in frizione con il tenore letterale dell’art. 18 D.L. 25 marzo 1997, n. 67”.
Per quanto a noi consta, a dispetto di quanto pretenderebbe la discutibile interpretazione offerta dall’Avvocatura Distrettuale di Venezia, ad affermare che ogni residuale riferimento ad assoluzioni con formula dubitativa è stato rimosso da oltre trent’anni, da quando cioè è entrato in vigore l’allora nuovo codice di procedura penale, non è, come si lascerebbe intendere, un filone interpretativo minoritario. Anzi, è semmai vero il contrario.
In primo luogo, secondo le stabili coordinate ermeneutiche tracciate da molteplici interventi delle Sezioni Penali della Corte di Cassazione, (tra i più recenti la sentenza n. 43598/2022) è stato da tempo chiarito come “nel vigente sistema processuale, l’assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove equivale a tutti gli effetti alla mancanza assoluta di prove … La prassi di specificare, nel dispositivo assolutorio, il primo o il secondo comma dell’art. 530 c.p.p. corrisponde solo ad un’esigenza (non necessaria ex lege) di rendere esplicito al momento della decisione il canone di giudizio adottato dal Giudice, ma non attribuisce un valore giuridico diverso alla pronuncia assolutoria, che resta piena in entrambi i casi. Conseguentemente, nessun concreto pregiudizio può derivare all’imputato dalla specifica indicazione nel dispositivo del comma 2 dell’art. 530 c.p.p., piuttosto che del comma 1 … in quanto tale formula assolutoria non comporta una maggior pregnanza neanche in ordine agli effetti extra-penali”.
Già da questi stralci testuali si evince che quanto arditamente postulato nel parere verso cui sono rivolte le nostre critiche è un inaudito tentativo di far retrocedere le lancette della civiltà giuridica ad ere incompatibili con l’attuale assetto costituzionale.
Tentativo che anche la giurisprudenza amministrativa ha, con lapidari interventi, censurato con demolitoria severità. Sulle tracce dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione si è infatti espressa l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato. Nel parere 20/2013 del detto Consesso, reso in esito ad un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica azionato in un caso sostanzialmente identico a quello oggi da noi dedotto, il diniego al rimborso delle spese legali era stato opposto sulla base di un parere dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. L’Adunanza Generale ha così avuto modo di affermare che “l’eliminazione dal contesto penalistico della formula dubitativa dell’assoluzione per insufficienza di prove ha comportato la parificazione del mancato raggiungimento della prova con il proscioglimento pieno a tutti gli effetti. In tal modo il legislatore ha dato piena attuazione al principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva di cui all’art. 27 Cost.; principio che non consente di far riferimento ad altri criteri di responsabilità che non siano quelli della assoluta equiparazione delle ipotesi previste dall’articolo 530 c.p.p.. in quanto nel “ vigente codice il dubbio non ha valenza processuale esterna, essendo stata piuttosto sancita la regola della necessaria adozione della formula assolutoria senza ulteriori qualificazioni, anche in presenza della insufficienza del materiale probatorio di accusa”.
Seguendo le orme del percorso tracciato dall’Adunanza Generale anche il Consiglio di Stato (sentenza n. 1975/2019) ha accolto il ricorso di un operatore della Polizia di Stato che, come gli istanti a cui ci stiamo dedicando nell’attualità, dopo essere stato assolto ai sensi dell’art. 530, cpv. c.p.p., si era visto negare il rimborso delle spese legali. Nella pronuncia viene per l’appunto ribadito come “La lettera e la ratio della normativa di riferimento non possono, infatti, lasciare spazio a dubbi interpretativi, in quanto ciò determinerebbe una surrettizia reintroduzione in via amministrativa dell’assoluzione “dubitativa” già rimossa dal nostro ordinamento, in contrasto con il principio di presunzione di non colpevolezza sancito dall’articolo 27, secondo comma, della Costituzione e con le previsioni dei Trattati internazionali cui l’Italia aderisce”. E l’Amministrazione resistente, in virtù della soccombenza, è stata, per quanto può risultare di interesse, condannata alle spese di lite.
Sia consentito, infine, indugiare su un contributo dottrinale di un esperto giurista che rende ancora più incomprensibile la posizione assunta dall’Avvocatura veneziana. Non solo perché l’autore è un Avvocato dello Stato, ma soprattutto perché parliamo di un lavoro scientifico pubblicato sulla rivista ufficiale dell’Avvocatura dello Stato (GERARDO, M., Il rimborso delle spese di patrocinio legale nei giudizi di responsabilità nei confronti di dipendenti pubblici ai sensi dell’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997 n. 67”, in RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO n. 3/2018, 207 ss.). Un lungo ed articolato commento nel quale si afferma con adamantina chiarezza che “Spetta il rimborso delle spese legali richiesto da dipendenti di Amministrazioni statali ex art. 18 D.L. n. 67 del 1997 a fronte di sentenze penali di assoluzione con formula ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p…. Difatti, l’ipotesi assolutoria di cui al secondo comma, come quella del primo comma, esclude ogni responsabilità agli effetti penali, in esito a giudizio valutativo e di graduazione delle prove assunte, nel loro concorso, in negativo o in positivo, a qualificare la responsabilità dell’imputato”.
Siamo allora di fronte, con ogni evidenza, ad una uniformità di orizzonti che – quantomeno per quanto viene a noi restituito – solo alcune sedi territoriali dell’Avvocatura dello Stato, ieri Napoli, oggi Venezia, ritengono di poter disconoscere, arrivando persino a disattendere la dottrina sostenuta da propri insigni rappresentanti.
Dunque il parere da noi contestato non scaturisce da un ostacolo normativo, bensì da una volontà interpretativa che appare come pervicacemente indirizzata a realizzare una ingiusta afflizione nei confronti di chi rischia la propria vita servendo lo Stato, a difesa delle istituzioni e a garanzia della sicurezza collettiva e dell’ordine pubblico. Una clamorosa, ingiustificata deviazione dai rigorosi paradigmi condivisi dal resto della comunità scientifica e giuridica che rende ancora più pressante riflettere sull’assetto attuale del sistema della tutela legale.
La previsione che un organo della pubblica amministrazione sia competente a decidere sulla congruità delle spese che un’altra pubblica amministrazione è tenuta a rimborsare realizza, e per più motivi, un perverso conflitto di interessi. In primis perché lo Stato, per il tramite delle sue articolazioni, risulta essere, al contempo, il soggetto chiamato dalla legge a manlevare il dipendente per le spese legali sostenute e anche quello competente a valutarne la congruità. In altri termini debitore ed arbitro sono portatori dei medesimi interessi. Ed è allora necessario rivedere in radice questo impianto normativo produttivo di irrecuperabili strappi con i principi fondamentali dell’ordinamento. Non solo.
L’Avvocatura erariale è anche potenzialmente interessata ad un eventuale patrocinio in giudizio di dipendenti pubblici. Ed è allora scontato che se le difficoltà che il pubblico dipendente incontra per ottenere il rimborso delle spese legali diventano insormontabili, al punto che anche in caso di assoluzione viene messo in discussione il suo diritto ad ottenerle, si condiziona la sua libertà di rivolgersi ad un professionista del foro sulla base di un rapporto fiduciario, e non gli resta altra opzione che quella di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato. Il che è tanto più vero nel momento in cui mentre le retribuzioni stagnano ed il potere d’acquisto viene drasticamente indebolito, i lavoratori pubblici non dispongono di risorse adeguate per sopportare gli oneri dei compensi professionali richiesti dagli avvocati a seguito di procedimenti scaturenti per aver ottemperato all’obbligo di legge che gli ha imposto di intervenire.
Una vera e propria turbativa alle dinamiche del mercato e della libera concorrenza che merita di essere destinataria di una prioritaria valutazione del decisore politico e del legislatore. Nelle more riteniamo indifferibile un immediato e autorevole intervento delle SS.LL. che possa restituire serenità alle donne e agli uomini che vestono una divisa. Il disarmonico approdo interpretativo dell’Avvocatura Distrettuale di Venezia rischia infatti di alimentare momenti di smarrimento tra gli operatori delle Forze di polizia in primis, e tra tutti gli altri dipendenti pubblici più in generale, nonché contrasti interpretativi in virtù dei quali l’ammissione al rimborso delle spese legali finirebbe per essere condizionata al diverso orientamento dell’uno piuttosto che dall’altro ufficio territoriale dell’Avvocatura medesima. Con effetti devastanti sull’aspetto motivazionale del personale che noi rappresentiamo, che sarebbe costretto a vivere nell’incertezza di poter fruire di un così importante istituto normativo a tutela della delicata funzione esercitata a garanzia della sicurezza pubblica.
Anche perché è appena il caso di far presente come la categoria dei lavoratori delle Forze di polizia, per la peculiare natura dell’attività professionale svolta, e per l’assoluta irrilevanza delle conseguenze che incontra chi promuove iniziative giudiziarie temerarie se non addirittura calunniose nei loro confronti, registra in termini percentuali una elevatissima esposizione a procedimenti penali che, nella quasi totalità dei casi, si conclude con un’assoluzione.
Se, in altri termini, non dovesse rientrare il pericolo di veder affermata la prospettiva proposta dall’Avvocatura Distrettuale veneziana, sarebbero inevitabili i contraccolpi morali che accuserebbero non solo i poliziotti del caso da cui ha preso le mosse questo nostro stimolo, ma anche tutti quelli che, come loro, sono chiamati, per mission istituzionale, ad esercitare quotidianamente i delicatissimi compiti di controllo dell’ordine e della sicurezza pubblica. Perché ciò vorrebbe dire che, per i soli appartenenti alle Forze dell’ordine, verrebbe meno la garanzia del principio costituzionale di presunzione di innocenza.
Per le ragioni in premessa, confidiamo che l’invocata azione nomofilattica possa svolgere i suoi effetti con ogni consentita urgenza, rappresentando che, sinora, il SIULP ha dispiegato non poche energie per evitare spontanee legittime iniziative finalizzate a sensibilizzare l’opinione pubblica su questa cogente problematica, frutto di una mentalità che di certo non contribuisce a rafforzare il sentimento di vicinanza alle Istituzioni e che potrebbe, invece per evitare a monte di non incappare in percorsi giudiziari che avrebbero nella migliore delle ipotesi un effetto economico devastante, essere foriera di dubbi sull’agito che sinora i poliziotti hanno garantito”.