Procedimento disciplinare – termini: la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione è assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento – Cons. Stato sent. nr. 10/06 del 27.03.2006

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Ultimo aggiornamento 22/07/2013

Procedimento disciplinare – termini: la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione è assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento. Il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha infatti sancito – trattando dei termini di conclusione dei procedimenti disciplinari – che un procedimento penale conclusosi con la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, è agevolmente assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento non potendosi escludere, in tal caso, per le particolari modalità del procedimento penale, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare.

 

Cons. Stato, ad. plen., sent. nr. 10/06 del 27.03.2006 – dep. 27.06.2006

 

Sent. nr. 10/2006

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N. 10/2006

Reg.Dec.

N. 30 Reg.Ric.

ANNO 2005

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 30 del 2005, proposto dal Ministero dell’interno, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliato per legge in Roma alla via dei Portoghesi n. 12;

contro

sig. …………….., rappresentato e difeso dall’ avv. ……………ed elettivamente domiciliato presso lo studio in ………………;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, 10 febbraio 2000, n. 144;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellato;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla camera di consiglio del 27 marzo 2006 relatore il Consigliere Costantino Salvatore.

Uditi l’avv. dello Stato Figliolia per il Ministero appellante e l’avv. …………….. per l’appellato;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

F A T T O

Il ricorrente, già agente scelto della Polizia di Stato precedentemente in servizio presso il Commissariato ……. di Roma, con ricorso al TAR Piemonte, esponeva di aver subito due distinti processi penali per fatti commessi in servizio, nel primo dei quali era stato condannato in primo grado dal Tribunale di Roma con sentenza del 7 luglio 1992, alla pena della reclusione per anni tre per i delitti di cui agli artt. 416 , 624 e 625 c.p.: pena poi ridotta ad anni due con sentenza della Corte di Appello di Roma in data 8 marzo 1994, successivamente annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione con sentenza del 23 marzo 1995, dichiarativa della prescrizione dei reati ascritti, mentre nel secondo era stato assolto dalle imputazioni per i delitti di cui agli artt. 81 e 319 c.p. con sentenza del Tribunale di Roma in data 6 marzo 1992, perché il fatto non sussiste.

Aggiungeva che, in pendenza del primo procedimento, era stato sospeso in via cautelare dall’impiego, e poi riammesso a decorrere dal 10 settembre 1992, con sua destinazione al V Reparto mobile Polstato di Torino, dove aveva ripreso servizio.

Rappresentava ancora il deducente che, a seguito della pubblicazione della citata sentenza della Corte di Cassazione, il Questore di Torino aveva avviato il procedimento disciplinare per i fatti già valutati in sede penale, conclusosi con il provvedimento irrogativo della destituzione.

Ciò premesso, il ricorrente deduceva le seguenti censure.

1). Violazione e falsa applicazione dell’art. 120 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, degli artt. 17 ss. Del D.P.R. 25 Ottobre 1981, n. 737, dell’art. 9, secondo comma della legge 7 febbraio 1990, n. 19, dell’art. 21 del D.P.R. 25 Ottobre 1981, n. 737. Violazione e falsa applicazione delle sentenze della Corte Costituzionale 22 dicembre 1988, n. 1128 e 25 maggio 1990, n. 264. Violazione e falsa applicazione dei principi regolanti il buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione e di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241. Eccesso di potere per difetto di istruttoria ed ingiustizia manifesta.

Il procedimento disciplinare sarebbe stato instaurato oltre il termine di legge; sarebbero altresì stati violati i termini intermedi per il suo svolgimento, quello per l’adozione del provvedimento definitivo e quello per la relativa comunicazione all’interessato.

2). Violazione e falsa applicazione dell’art. 7, nn. 1, 2 e 4 del D.P.R. 25 Ottobre 1981, n. 737. Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, ed, in particolare, difetto di istruttoria, falso presupposto, travisamento del fatto, ingiustizia manifesta, illogicità, Insufficienza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.

Il procedimento sarebbe stato concretamente promosso in relazione ai fatti oggetto della sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Roma il 6 marzo 1992 ed il richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione del 23 marzo 1995 sarebbe un mero espediente finalizzato ad eludere la decadenza dell’azione disciplinare.

I fatti addebitati non evidenzierebbero, comunque, alcuna responsabilità del ricorrente, né l’amministrazione avrebbe adeguatamente valutato le giustificazioni da lui presentate.

Il Ministero dell’Interno si costituiva in giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso.

L’istanza cautelare veniva respinta con ordinanza del TAR 14 febbraio 1996, n. 186, confermata in appello, con ordinanza di questo Consiglio di Stato (Sez. IV) 2 luglio 1996, n. 979.

Il TAR ha rigettato la censura di intempestività del procedimento disciplinare, sul rilievo che era stato rispettato il termine iniziale stabilito dall’art. 9, comma 6, del d.p.r. 25 ottobre 1981, n. 737, di 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza penale che definisce il giudizio in modo irrevocabile.

Il giudice di primo grado ha, invece, accolto il ricorso ritenendo che l’amministrazione abbia violato l’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990 n. 19, nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare per la destituzione del pubblico dipendente deve concludersi entro 90 giorni dal suo inizio. Nel caso in esame il provvedimento sanzionatorio, adottato in data 8 novembre 1995 ossia a quasi sette mesi di distanza dalla contestazione di addebito, che segna il momento di decorrenza del termine trimestrale di cui sopra, sarebbe tardivo rispetto al citato termine di 90 giorni.

Contro la sentenza il Ministero dell’interno ha proposto il presente appello, contestandone le conclusioni e chiedendone l’integrale riforma.

L’originario ricorrente si è costituito anche in questo grado di giudizio, replicando alle argomentazioni del Ministero ed insistendo, anche con ulteriore memoria illustrativa, per il rigetto dell’impugnazione.

La Sesta Sezione ha ravvisato la ricorrenza dei presupposti per deferire la cognizione del ricorso in appello all’esame dell’Adunanza plenaria delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

Ciò con riguardo alle questioni di diritto sottese ai primi due motivi del ricorso in appello, ed in ragione dell’indubbia importanza di massima delle medesime e dell’esigenza di stabilire in una materia delicata come quella dei termini del procedimento disciplinare a carico dei dipendenti della Polizia di Stato certezze giurisprudenziali che diano prevedibilità alle decisioni dei giudici amministrativi e sicuro orientamento all’amministrazione.

In proposito, la Sezione rimettente segnala che l’orientamento giurisprudenziale maturato nell’ambito della Sezione Quarta (C.d.S., Sez. IV, 7 ottobre 1998, n. 1298; 9 agosto 1997, n. 785), ha ritenuto la norma contenuta nell’art. 9, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 – che fissa per l’avvio del procedimento disciplinare il termine, da considerarsi perentorio, di centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna penale – di portata estensiva in tutto il settore del pubblico impiego ed ha concluso quindi nel senso della sua applicabilità anche al personale della polizia di stato, in luogo della norma speciale di cui all’art. 9, d.p.r. 25 ottobre 1981, n. 737.

La Sezione Sesta ritiene che tale ultima tesi, relativa all’applicabilità dell’art. 9, della legge n. 19/1990 anche al personale della Polizia di Stato, vada condivisa, stante la natura di norma di principio e di basilare ed uniforme garanzia, da riconoscersi allo stesso art. 9 della legge n. 19/1990, ma aggiunge che il logico corollario di questa conclusione dovrebbe comportare l’applicazione della norma nella sua interezza, con conseguente computo in 270 giorni del termine per la conclusione del procedimento disciplinare a decorrere dalla notizia della sentenza e senza che abbia rilievo alcuno, a questi fini, la tempistica fissata dal d.p.r. n. 737/1981.

Di conseguenza, anche ai procedimenti disciplinari dell’Amministrazione dell’Interno nei confronti della Polizia di Stato risulterebbe applicabile l’insegnamento di questa Adunanza Plenaria (25 gennaio 2000, n. 7) secondo il quale il termine finale di novanta giorni del procedimento disciplinare, conseguente ad una sentenza penale di condanna, decorre allo spirare del termine iniziale di centottanta giorni, entro i quali la p.a. ha il potere di avviare il procedimento disciplinare.

In caso contrario, infatti, la Polizia di Stato per l’avvio del procedimento disciplinare godrebbe di un termine inferiore a quello previsto per le altre amministrazioni, con conseguente vizio di incostituzionalità della disciplina per irragionevolezza (art. 3 Cost.).

All’odierna udienza di discussione il rappresentante dell’Avvocatura generale dello Stato ed il difensore dell’appellato hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive, insistendo nelle rispettive posizioni e l’appello è stato trattenuto in decisione.

D I R I T T O

1. In via prioritaria, va precisato che l’ambito del quesito sottoposto all’esame dell’ Adunanza plenaria attiene all’applicabilità, o meno, al personale della Polizia di Stato del termine di 90 giorni previsto dall’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, per la conclusione del procedimento disciplinare.

La questione del rispetto del termine iniziale, pure sollevata dal ricorso di primo grado, è stata ritenuta infondata dal primo giudice sul rilievo che il procedimento disciplinare era stato promosso tempestivamente nel rispetto del termine di 120 giorni, stabilito dall’art. 9, comma 6 DPR n. 737 del 1981, dalla conoscenza della sentenza della Corte di Cassazione del 23 marzo 1995, e non è stata riproposta in questa sede dall’amministrazione appellante.

2. Ciò precisato, ritiene questa Adunanza Plenaria che il primo motivo d’appello, con il quale l’amministrazione contesta la statuizione del giudice di primo grado ed assume che al personale della polizia di Stato, contrariamente a quanto affermato dal TAR, non sono applicabili le disposizioni di cui all’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, sia, con riferimento al caso in esame, fondato.

Il richiamo alla giurisprudenza di questo Consiglio, relativa all’applicabilità dell’art. 9, della legge n. 19/1990 anche al personale della Polizia di Stato, non appare pertinente per la decisiva considerazione che l’invocato orientamento attiene all’ipotesi in cui si sia in presenza di sentenza penale di condanna.

Nel caso in esame, invece, il ricorrente è stato prosciolto dalle relative imputazioni perché i reati contestati sono stati dichiarati estinti per intervenuta prescrizione e il relativo procedimento disciplinare conclusosi con il provvedimento oggetto di impugnazione ha preso l’avvio da una sentenza di proscioglimento e non, dunque, di condanna.

E questo procedimento disciplinare è stato avviato in doverosa applicazione dell’art., comma del DPR 25 ottobre 1981, n. 737, ai sensi del quale “Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze che rendano l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di giorni 120 dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all’Amministrazione”.

Come sottolineato dall’Amministrazione, per il personale della Polizia di Stato, le specifiche disposizioni, di cui al citato D.P.R. 25 Ottobre 1981, n. 737, prevedono un tipo di procedimento disciplinare, che si sviluppa su più fasi tutte regolate e disciplinate anche per quanto concerne i tempi di effettuazione e nell’ambito del quale l’amministrazione procedente deve ponderare, con le garanzie del contraddittorio, la rilevanza disciplinare dei fatti accertati nel corso del giudizio penale, tenendo conto, altresì, della personalità dell’incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni altro interesse pubblico che possa essere validamente considerato nell’ambito di tale procedimento.

Del resto la potestà disciplinare, nelle sue forme proprie, opera in sfera diversa da quella che inerisce al magistero penale, tant’è che di regola anche le formule assolutorie, fatta eccezione della pronuncia perché il fatto non sussiste, ovvero l’imputato non lo ha commesso, non precludono l’ingresso all’azione disciplinare (Corte costituzionale 16-19 dicembre 1986, n. 270) e neanche la sentenza penale istruttoria di proscioglimento preclude che il medesimo comportamento possa essere qualificato dall’amministrazione come illecito disciplinare (Sez. V, 3 marzo 1988, n. 114).

Ad avviso di questa Adunanza Plenaria, un procedimento penale conclusosi con la dichiarazione di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, è agevolmente assimilabile alla sentenza penale di patteggiamento, per la quale la stessa Corte costituzionale nella medesima sentenza (28 maggio 1999, n. 197), in cui ha condiviso la tesi della perentorietà del termine di cui all’art. 9, comma 2, legge n. 19 del 1990, ha, tuttavia, escluso che la norma trovi applicazione quando il procedimento disciplinare sia instaurato a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art. 444 del Codice di procedura penale), non potendosi escludere, in tal caso, per le particolari modalità del procedimento penale, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare.

Anche nel caso in esame, come si evince dalla documentazione allegata, l’Amministrazione, considerate le peculiarità della vicenda in esame, ha dovuto svolgere autonomi accertamenti istruttori, che sono stati posti in essere proprio per rispettare quel principio del contraddittorio, ritenuto “incomprimibile” e tutelato da varie norme dello stesso DPR n. 737 del 1981; ha avviato l’inchiesta disciplinare nel rispetto del termine iniziale stabilito ed ha proseguito l’iter rispettando rigorosamente la tempistica prevista dalla richiamata normativa, proprio al fine di garantire al dipendente il pieno e compiuto esercizio del suo diritto di difesa nel pieno rispetto del principio del contraddittorio; ha, poi, concluso il procedimento con provvedimento in data 8 novembre 1995, dopo 219 giorni dalla pronuncia della Corte Suprema di Cassazione intervenuta il 23 marzo 1995 e dopo soli 203 giorni dalla data di contestazione degli addebiti: dunque, con il pieno rispetto dei termini intermedi e finali indicati dal menzionato DPR n. 737 del 1981.

Si può, quindi, concludere nel senso che nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, da un lato, non si applica il termine finale di cui all’art. 9, comma 2 della legge n. 19 del 1990, e, dall’altro lato, il provvedimento finale è stato adottato nel pieno rispetto della tempistica prevista dal DPR n. 737 del 1981.

Vero è che la citata normativa non prevede un termine finale per l’adozione del procedimento sanzionatorio, ma questa lacuna non assume rilevanza posto che, ove venga rispettata, come nella specie, la scansione temporale disciplinata dalle varie disposizioni, il procedimento si conclude in un arco temporale complessivamente inferiore a quello previsto dal menzionato art. 9, comma 2 della legge n. 19 del 1990 (complessivamente 270 giorni).

Le conclusioni ora raggiunte rendono superfluo l’esame della questione circa l’applicabilità, nella sua interezza, del menzionato art. art. 9, comma 2 della legge n. 19 del 1990.

3. Vanno ora esaminate le ulteriori censure dedotte con il ricorso di primo grado, dichiarate assorbite dal TAR ed espressamente riproposte dall’appellante in questo grado.

3.1. Esse investono, in primo luogo, i termini intermedi stabiliti per il compimenti di atti preordinati all’adozione di quello finale. In tale contesto, ad avviso del ricorrente originario, sarebbe stato violato l’art. 120 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, che prevede l’estinzione del procedimento disciplinare quando sia decorso il termine di novanta giorni dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto: nella specie, dopo l’atto di contestazione degli addebiti, avvenuta il 21 aprile 1995, la prima convocazione della Commissione di disciplina sarebbe avvenuta in data 12 settembre 1995, e, quindi, ben oltre i novanta giorni. Sarebbero, inoltre, stati violati il termine perentorio di 45 giorni previsto dall’art. 19, comma 5 del DPR n. 737 del 1981, per il conclusione dell’inchiesta da parte del funzionario istruttore, nonché quello stabilito dall’art. 21 del medesimo decreto presidenziale, per la comunicazione del provvedimento di destituzione.

Tutte le doglianze sono infondate.

Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 120 del TU 10 gennaio 1957, n. 3, è sufficiente rilevare che, come emerge dall’esame della documentazione esibita, tra la contestazione degli addebiti del 21 aprile 1995, e la prima convocazione del Consiglio di Disciplina, intervenuta in data 12 settembre 1995, si sono susseguiti tutta una serie di atti quali la produzione delle giustificazioni da parte dell’inquisito in data 13 settembre 1995, la relazione del funzionario istruttore a conclusione dell’inchiesta disciplinare in data 14 giugno 1995, e il deferimento da parte del Questore del sig. …….. al Consiglio Provinciale di Disciplina: atti questi, la cui scansione temporale e il cui susseguirsi sono previsti specificamente dall’art. 19 DPR n. 737 del 1981, quali fasi dell’istruttoria per l’irrogazione della sospensione del servizio o della destituzione.

Il che esclude che si sia verificata l’ipotesi di estinzione del procedimento disciplinare di cui all’invocato art. 120 DPR n. 3 del 1957.

Quanto agli altri termini, è facile osservare che, secondo pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, hanno carattere ordinatorio i termini fissati per la nomina del funzionario istruttore, per il compimento degli incombenti preliminari e per la trasmissione della delibera della Commissione di Disciplina. In particolare ha carattere ordinatorio, e non perentorio come erroneamente sostenuto dall’appellato, il termine di 45 giorni per la conclusione dell’inchiesta disciplinare.

Altrettanto pacifico è l’orientamento giurisprudenziale in ordine al termine di dieci giorni, previsto dall’art. 21 del DPR n. 737 del 1981, per la comunicazione all’inquisito del provvedimento finale. L’eventuale ritardo nella notifica del provvedimento disciplinare, peraltro nella specie di un solo giorno, non ha effetti decadenziali sull’atto, atteso che il termine di dieci giorni ha carattere ordinatorio, non incidendo, a procedimento oramai concluso, con le esigenze di garanzia connesse al diritto di difesa dell’ interessato.

Si deve, pertanto, concludere per l’infondatezza delle censure sollevate dal ricorrente in ordine al mancato rispetto dei termini nel procedimento disciplinare de quo.

4. A conclusioni negative deve pervenirsi, infine, con riguardo alla censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 7, nn. 1, 2 e 4 del D.P.R. 25 Ottobre 1981, n. 737, nonché di eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, ed, in particolare, sotto i profili del difetto di istruttoria, del falso presupposto, del travisamento del fatto, dell’ingiustizia manifesta, dell’illogicità, dell’insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione.

Il ricorrente assume che il procedimento sarebbe stato concretamente promosso in relazione ai fatti oggetto della sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Roma il 6 marzo 1992 ed il richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione del 23 marzo 1995 sarebbe un mero espediente finalizzato ad eludere la decadenza dell’azione disciplinare.

Inoltre, i fatti addebitati non evidenzierebbero alcuna responsabilità del ricorrente, né l’amministrazione avrebbe adeguatamente valutato le giustificazioni da lui presentate.

4.1. Con riferimento alla questione dei fatti contestati, che, secondo il ricorrente, si riferirebbero a vicenda per la quale era stato assolto e non ai fatti oggetto del procedimento penale relativo all’associazione a delinquere per commettere furti, conclusosi con la decisione della Cassazione, va osservato che questo particolare priflo del secondo motivo del ricorso originario è stato ritenuto infondato in punto di fatto dal giudice di primo grado (cfr. punto 3, pag. 6 della motivazione e, in particolare, gli ultimi due periodi.

Segue da questa precisazione che questa statuizione del primo giudice poteva essere contestata solo con specifico motivo di ricorso incidentale.

Poiché, però, la doglianza viene riproposta solo con il controricorso, non notificato, essa deve essere dichiarata inammissibile.

4.2. Quanto alla questione sostanziale della censura, va premesso che al sig……… è stato contestato “un comportamento che rivela mancanza del senso morale e dell’onore, tenuti in contrasto con i doveri assunti con il giuramento, risultano gravemente pregiudizievoli per ‘immagine dell’Amministrazione della P.S.”.

Come emerge dalla documentazione esibita, il procedimento disciplinare si è svolto attraverso un’adeguata ed approfondita attività istruttoria, nell’ambito della quale il Consiglio di Disciplina ha tenuto conto dello svolgimento dei fatti, valutandone la rilevanza disciplinare e pervenendo alla sanzione espulsiva sul rilievo che l’agente di polizia aveva perpetrato, insieme ad altri colleghi, furti ai danni di locali e convogli ferroviari, che, per dovere d’ufficio, era obbligato a sorvegliare.

Nessuna confusione sui fatti contestati è dato scorgere nello svolgimento del procedimento disciplinare.

Se può convenirsi che il funzionario istruttore ha escluso che l’inquisito avesse la possibilità di cambiare i turni di servizio, non può sottacersi che dall’istruttoria, è emerso sia che era consentito effettuare il cambio dei turni di servizio su semplice richiesta delle parti sia che l’inquisito era risultato quale punto di riferimento anche per gli altri agenti coinvolti, per avere notizie sulla data e sulle modalità del furto e per la consegna delle somme illecitamente ricavate.

Né vale ad attenuare la posizione del ricorrente la circostanza – da lui pacificamente ammessa – di avere partecipato ad un solo furto, perché anche soltanto la partecipazione ad un solo furto assume un peculiare rilievo in sede disciplinare, soprattutto per la gravità del comportamento che non solo evidenzia mancanza di senso morale, ma si pone in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento, ove si consideri che un agente di polizia ha il dovere istituzionale di prevenire e reprimere i comportamenti illegali, non certo a perpetrarli e agevolarli.

In sostanza la destituzione trova la sua ragion d’essere nella considerazione che un appartenente della Polizia di Stato – cioè un soggetto il cui preciso dovere istituzionale è quello di tutelare l’ordine a la sicurezza pubblica – si è reso responsabile, per sua stessa ammissione, di partecipazione ad un’organizzazione criminosa dedita a furti, condotta che ex se rivela mancanza del senso dell’onore, del senso morale e per di più palesemente contrastante con i doveri assunti con il giuramento.

Un tale comportamento è agevolmente riconducibile, come esattamente afferma l’amministrazione, alle fattispecie previste dai nn. 1, 2 e 4 dell’art. 7, DPR n. 737 del 1981, anche per la riscontrata irrilevanza delle giustificazioni fornite, le quali sono state ritenute non in grado di scalfire la gravità dei fatti contesati.

Da qui la ritenuta obiettiva impossibilità per l’amministrazione di continuare ad avvalersi di dipendenti che incorsi in condotte illecite particolarmente significative sul piano del prestigio e quindi idonee a far venire meno la fiducia dell’amministrazione e dei cittadini nei loro confronti.

Quanto poi alla sanzione irrogata, va osservato che le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto l’infrazione e fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità.

Né può disconoscersi che il comportamento dell’inquisito ha procurato un grave pregiudizio all’Amministrazione, ove si considerino i peculiari e delicati compiti che le sono propri e che per loro natura la espongono, in modo particolare all’apprezzamento dell’opinione pubblica, la quale, nel particolare settore dell’ordine e della sicurezza pubblica, esige efficienza operativa e correttezza di condotta da parte del personale del1a Polizia di Stato.

Va, infine, rilevato che le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi ed è, pertanto, compito dell’Amministrazione stabilire, in sede di formazione della sanzione da irrogare, il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale necessariamente assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità.

L’Amministrazione dispone, difatti, di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo.

In conclusione, si può affermare che il provvedimento impugnato si sottrae alle varie censure sollevate sia di violazione di legge sia di eccesso di potere per difetto di motivazione (il provvedimento è adeguatamente motivato per relationem al parere del Consiglio di Disciplina) e per le altre figure sintomatiche enunciate nell’epigrafe del motivo in esame.

5. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto e, per l’effetto in riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va respinto.

Le spese del doppio grado possono essere compensate.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe specificato, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:

Alberto de Roberto Presidente del Consiglio di Stato

Mario Egidio Schinaia Presidente aggiunto

Paolo Salvatore Presidente di Sezione

Raffaele Iannotta presidente di Sezione

Sabino Luce Consigliere

Raffaele Carboni Consigliere

Costantino Salvatore Consigliere est.

Filippo Patroni Griffi Consigliere

Giuseppe Farina Consigliere

Corrado Allegretta Consigliere

Luigi Maruotti Consigliere

Carmine Volpe Consigliere

Pier Luigi Lodi Consigliere

Presidente

f.to Alberto de Roberto

Consigliere Segretario

f.to Costantino Salvatore f.to Maria Rita Oliva

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

 

il………………27/06/2006……………….

(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)

Il Dirigente

f.to Maria Rita Oliva

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