Illegittimo utilizzare i permessi 104 per allenarsi

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Con la sentenza numero 2157 del 30 gennaio 2025, i giudici della Cassazione hanno confermato il licenziamento di un lavoratore che nella fascia oraria in cui usufruiva dei permessi per assistere la mamma disabile, si allenava in abbigliamento sportivo da ciclista, come documentato da un investigatore privato incaricato dal datore di lavoro.

Nella fase di merito, i giudici avevano rilevato come il lavoratore utilizzasse tutto o parte del tempo del permesso per i suoi allenamenti. La sistematicità della condotta avrebbe denotato un utilizzo improprio abituale dei permessi in questione, ed un disvalore tale da giustificare il massimo provvedimento sanzionatorio.

La Cassazione ha, dunque, confermato, i precedenti provvedimenti, ritenendo, altresì, che il controllo degli investigatori privati non viola in alcun modo la riservatezza del lavoratore, e ben può ritenersi legittimo giacché oggetto dell’accertamento non è stata la quantità o qualità della prestazione lavorativa, bensì il legittimo utilizzo dei permessi in questione, al fine esclusivo, quindi, di tutelare il patrimonio aziendale. Proprio per tali ragioni, non è neppure lontanamente ipotizzabile – come ha invece sostenuto il ricorrente – che possa esserci stata una violazione delle norme a presidio dei diritti dei lavoratori.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1227 del 17 gennaio 2025, aveva precedentemente chiarito che la valutazione del diritto ai permessi deve considerare non solo il tempo dedicato (aspetto quantitativo), ma anche il tipo e la finalità dell’assistenza prestata (aspetto qualitativo). E, fra le attività legittime, rientrano – oltre a quelle di assistenza diretta al familiare disabile – anche quelle accessorie, come l’acquisto di medicinali, generi di prima necessità e il supporto alla partecipazione sociale del disabile.

Per costante giurisprudenza il dipendente che, con i suoi comportamenti, metta in atto un abuso del permesso per legge 104 viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Inps, vero erogatore della retribuzione nei giorni di assenza dal lavoro. Secondo la Cassazione, infatti, tale comportamento del dipendente – ledendo irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro – configura un motivo valido per interrompere in tronco il rapporto di lavoro, materializzandosi una condotta che «assume anche disvalore morale e sociale».

Basta, pertanto, anche un solo episodio per giustificare il licenziamento, non essendo necessario un comportamento reiterato (Cass. sent. n.17102/2021). Nel caso oggi in esame, la condotta del lavoratore è stata ritenuta contraria ai principi di correttezza e buona fede, dal momento che l’assenza dal lavoro era stata sistematicamente utilizzata per scopi ricreativi e personali, e non per l’assistenza al familiare disabile. La Suprema Corte ha inoltre chiarito che, sebbene la normativa non imponga una sorveglianza costante del lavoratore durante la fruizione dei permessi, il tempo dedicato deve risultare funzionale alla finalità per cui il beneficio è concesso. Nel caso in esame, le prove raccolte avevano, invece, dimostrato che il dipendente aveva impiegato una parte rilevante del permesso per attività estranee, il che configurava un abuso del diritto e giustificava il licenziamento.

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