Il datore è responsabile per i danni causati al lavoratore dal troppo stress subìto in ambiente lavorativo, anche se gli atti che hanno causato la lesione non integrano la fattispecie del mobbing.
Il principio è affermato dalla Cassazione con l’ordinanza n. 2084 del 19 gennaio 2024 secondo cui al fine di imputare una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro, non è necessaria, come ad esempio si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un “unificante comportamento vessatorio”, ma è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici.
Secondo i giudici della Cassazione, la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in tema di prescrizione e onere della prova.
Invero, la giurisprudenza di legittimità si è univocamente espressa nel senso che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 cod. civ., la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte – dato che ai sensi dell’art. 1218 cod. civ. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile – ma è comunque soggetta all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che il datore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (v. ex multis Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 13 ottobre 2015, n. 20533; Cass. 9 giugno 2017, n. 14468).
Quindi, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro grava sul dipendente l’onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, della malattia e del nesso causale tra la nocività dell’ambiente di lavoro e l’evento dannoso, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta nonché di aver adottato tutte le misure che – in considerazione della peculiarità dell’ attività e tenuto conto dello stato della tecnica – siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza.
Inoltre, come ricordato da Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291, l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” include anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi (v. anche Cass. 22 marzo 2002, n. 4129).
Questo implica anche l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, bum out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale, sulla scorta di quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale. (Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).
Al fine di rintracciare una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro, quale quella nello specifico dedotta, non è necessaria, come ad esempio si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un “unificante comportamento vessatorio”, ma è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come consentire, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291- Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692).
Nel caso di specie gli Ermellini hanno ritenuto “lampante la contraddittorietà della motivazione della Corte di merito territoriale, dal momento che nel provvedimento si legge che è “pacifico fra le parti che il ricorrente abbia sofferto di disturbo dell’adattamento con ansia e umore depressivo, scaturito dallo stress lavoro-correlato”.
Da un lato, quindi, il Giudice di appello ha valorizzato il disturbo scaturito dallo stress lavoro-correlato, dall’altro, ha del tutto svalutato la domanda del lavoratore ricondotta alla violazione dell’art. 2087 cod. civ.
Secondo la Cassazione, il lavoratore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni causati dall’espletamento dell’attività lavorativa non ha l’onere di dimostrare le specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza. Al contrario, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. 29 marzo 2022, n. 10115).
In conclusione, una volta accertato il danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra i due elementi, il diritto al risarcimento del danno non è eludibile.